Autoefficacia e resilienza – Preparazione psicologica e allenamento della mente

La scalata verso il pieno possesso delle proprie risorse, preparare la mente a rialzarsi

Articolo e contributi sviluppati in base agli studi di Daniele Trevisani esposti nel volume “Il Potenziale Umano” con il contributo di Studio Trevisani Communication Research & Human Potential, Franco Angeli editore (copyright)

_______

Autoefficacia: sapere contare sulle proprie risorse reali. Mancanza di autoefficacia: non sentirsi mai all’altezza, essere “imprecisi” nel capire quali sono le nostre vere risorse che potremmo generare, potenziare o allenare. Quando una persona affronta un progetto o una sfida pensando in anticipo di fallire, il suo fallimento è quasi garantito. Ad esempio, non verrà mai tentata una gara, o una nuova tecnica, anche se vi sono possibilità per provarci. La paura di sbagliare o fallire prende il sopravvento. O in un’azienda, non si oserà mai lanciarsi in un progetto nuovo per paura di non farcela.

Resilienza: in estrema sintesi, sapersi rialzare dopo un fallimento, un momento difficile, una caduta, una crisi. Quando si considera il fallimento stesso come una conferma della propria incapacità, anzichè il risultato di svariate cause, alcune delle quali non dipendono da noi, non ci si riproverà e nemmeno (peggio ancora) nè si cercheranno strade alternative o diverse strategie. Resilienza e resistenza sono due concetti molto diversi. Essere resistenti ad un colpo significa sapervi fare scudo. Essere resilienti significa sapersi rialzare o riprendere dopo il colpo.

La preparazione mentale è quindi un obiettivo fondamentale per tutti: per gli sportivi, per chi opera nelle professioni, ma anche e soprattutto per le giovani generazioni che devono imparare a vivere in un gioco (la vita) al quale non si è mai davvero pronti, un gioco sempre ricco di trappole non annunciate e colpi duri che arrivano senza nessun preavviso.

Molti Maestri o formatori sbagliano (e sono stato tra questi) nel cercare di sviluppare la resistenza degli allievi trascurando la loro resilienza. Allo stesso tempo,  molti atleti curano moltissimo la loro forza e potenza ma al primo fallimento grave o trauma grave, abbandonano (caduta di resilienza). Questo ha a che fare con la corretta percezione delle nostre risorse.

Io auguro a tutti di coltivare la nostra capacità di rigenerarci, di tirarci su dopo un fallimento personale o sportivo, di non cedere alle forze negative e coltivare in noi quella potenza psicologica che può farci diventare speciali e utili al mondo come uomini, donne e creature in grado di dare qualcosa agli altri.

Ma so che non sono sufficienti gli “auguri”. In questo articolo cerco quindi di entrare con un pò più di dettaglio nel tema, cercando di fare della resilienza e dell’autoefficacia un vero e proprio progetto per noi stessi e per chiunque vorremmo un giorno aiutare a crescere.

I target delle attività di preparazione psicologica, le variabili su cui agisce, possono essere numerose, citiamo tra queste:

resilienza psicologica e resistenza allo stress;

  • forza emotiva e fragilità emotiva;
  • capacità di percezione;
  • capacità propriocettive (percezione dei propri stati interni);
  • capacità di analisi;
  • capacità di concentrazione;
  • capacità di focalizzazione;
  • capacità di rilassamento;
  • capacità di meditazione;
  • capacità relazionali (es.: empatiche e assertive).

Entra in campo quindi un tema fondamentale, quello della costruzione psicologica e dei suoi metodi. In campo sportivo questo tema è stato accettato e riconosciuto dai trainer e coach più evoluti, come nella testimonianza che segue, mentre viene ignorato dai più.

Rimanendo nella metafora sportiva, la testimonianza seguente viene dall’allenatore di una delle più forti squadre al mondo tra le discipline estreme di combattimento, Chute Boxe e Valetudo (una tecnica in cui sono ammessi i colpi e tecniche provenienti da più arti marziali, condotti realmente e sino al ritiro di uno dei contendenti o al KO).

Rudimar Fedrigo conosce gli ingredienti che hanno portato al successo la sua scuola: “la disciplina, il rispetto, l’amicizia, ecco come conduco la mia accademia da 25 anni. Quando si è il leader bisogna essere fermi e anche duri con i propri atleti. Ma questo non impedisce di essere presenti quando loro hanno bisogno, per aiutarli nei loro problemi personali, sentimentali, ecc. Preparare dei combattenti curando solo ed unicamente la parte fisica e tecnica significa prepararli male. L’aspetto psicologico per me, è ugualmente importante se non di più[1].

E quanto più il gioco si fa duro e competitivo, tanto più il fattore psicologico è in grado di fare la differenza. Questo non solo nello sport, ma anche e soprattutto nella vita quotidiana, o manageriale, che nei contesti odierni pone sfide estremamente difficili per chi la vive a pieno, senza ritirarsi né sfuggirla.

Dal capitolo 3 del volume “Il Potenziale Umano”

Senso di autoefficacia

Se credo di poterlo fare,

acquisirò sicuramente la capacità di farlo,

anche se all’inizio non dovessi averla

Mahatma Gandhi

L’autoefficacia è un concetto che fa riferimento al “senso delle proprie possibilità”. La coscienza di ciò che è veramente nella sfera delle nostre possibilità e quello che non lo è in un certo momento, ci permette di fare letture corrette della situazione e dei compiti che ci attendono, senza cadere vittima di demoralizzazione precoce o inutile.

Bandura[2], sviluppatore del concetto sul piano scientifico, considera che l’autoefficacia percepita sia un insieme di credenze che le persone possiedono rispetto alle loro capacità di produrre livelli designati di performance specifiche (non generali), esercitare influenza sugli eventi e sulle proprie vite.

Include, inoltre, l’atteggiamento positivo verso la capacità di raccogliere sfide o porsi nuove sfide.

Nel nostro metodo, riteniamo che l’autoefficacia dipenda largamente dall’autostima ma anche dalla consapevolezza corretta, non distorta, dei repertori di esperienze e competenze possedute e di ciò che con quei repertori possiamo fare. Spesso queste possibilità sono enormi e inesplorate.

L’autoefficacia produce il fatto di non abbandonare di fronte a punti d’arresto, perseverare (resilienza),  lavorando per ottimizzare i propri progetti, consapevoli della forza intrinseca che essi possono avere.

Come evidenziato in un articolo del Wall Street Journal, in un brano dal titolo illuminante: “Se all’inizio non hai successo, sei in una azienda eccellente”, i veri successi sono spesso preceduti da dinieghi o porte chiuse[3].

Tra i casi citati: il libro di J. K. Rowling rifiutato da 12 editori prima che una piccola casa editrice londinese lo pubblicasse come “Harry Potter e la Pietra Filosofale”, un successo mondiale. La Decca Records che, in uno dei primi provini dei Beatles, disse “non ci piace il loro suono”. Walt Disney fu licenziato da un editor di un giornale, dicendo che egli “mancava di immaginazione.” Michael Jordan (il più grande giocatore di basket della storia) non venne considerato da ragazzino all’altezza del team di basket della sua scuola superiore.

Senza una sana dose di autoefficacia e di resilienza, queste persone avrebbero abbandonato la propria strada.

L’autoefficacia richiede la consapevolezza dei propri strumenti operativi (tools funzionali) e dei propri strumenti analitici e conoscitivi di base (meta-strumenti). Sapere di poter imparare vale più della conoscenza in sé.

Se diminuisce la percezione di disporre di tali strumenti, prevalgono atteggiamenti di rinuncia, la continua richiesta di aiuto anche su ciò che è invece nel nostro campo di fattibilità, l’immagine di “non essere ancora pronto per…”, o il sentimento negativo “non fa per me, e non ci posso nemmeno provare, o prepararmi per…”.

L’autoefficacia richiede un certo grado di accettazione ragionata del rischio e la consapevolezza che – per molti task – non è indispensabile la perfezione prima di poter passare all’azione. Spesso è sufficiente una dose di comprensione (attuale o potenziale) della materia, un buon spirito di adattamento e una buona capacità generale di problem solving, per poter affrontare larga parte dei problemi o sfide manageriali, sportive, o personali.

La consapevolezza delle proprie meta-competenze è un punto basilare.

Non è necessario avere già fatto qualcosa per sentire di poterlo fare, ma è indispensabile avere coscienza della propria capacità di generare soluzioni, di analizzare problemi, di comprendere dinamiche, e sapere di poter apprendere. Questi meta-fattori aiutano ad accettare anche sfide e compiti sui quali non esiste ancora esperienza specifica diretta o consolidata.

L’autoefficacia non deve diventare sensazione di onnipotenza o delirio, va dovutamente bilanciata con la saggezza e senso pratico, ma questi ancoraggi al realismo non devono impedire di perseguire un sogno difficile che abbia qualche probabilità di successo. La paura di fallire o incontrare difficoltà non deve fermare aspirazioni giuste e sogni sfidanti.

Il caso di un docente cui viene chiesto di fare una lezione su temi non esattamente pertinenti alla propria formazione, ma vicini, è un esempio concreto. La flessibilità mentale è un fattore vincente.

Un docente che insegna statistica ed ha basso livello di autoefficacia non accetterà di insegnare una materia come la Qualità Totale (trovandovi molte differenze rispetto alla propria), mentre al contrario sarebbe assolutamente fattibile. Tale materia è ampiamente basata su metodi statistici. Aumentando l’autoefficacia, la stessa persona potrà lanciarsi verso l’insegnamento di Qualità Totale, ma anche altro, es.: Metodi di Ricerca, sapendo di avere sia una buona base e soprattutto le capacità di apprendimento che servono per poter acquisire ciò che manca.

In sostanza, quel docente conosce già almeno il 90% di un possibile programma, e sa che potrà apprendere il rimanente 10% con poco sforzo. Un individuo con bassa autoefficacia si concentrerà sul 10% da apprendere e sul come apprenderlo, un individuo con bassa autoefficacia lo vedrà come “quel 10% che manca, per cui non si può fare”. Una differenza notevole!

Lo stesso vale per un istruttore di karatè cui viene richiesto di insegnare difesa personale. Un istruttore con alto livello di autoefficacia capirà immediatamente che le sue skill di base sono ampiamente sufficienti ad insegnare a qualcuno come difendersi, e se percepisce una lacuna nel suo set di conoscenze si adopererà per colmarla. Un istruttore con basso livello di autoefficacia coglierà ogni possibile “scusa” per non farlo: “non è la mia materia”, “non so come si faccia”, “non sono preparato” etc.

Un’alta autoefficacia è basata sull’orientamento a cogliere, in ogni sfida, ciò che è fattibile, ciò che è realizzabile o quantomeno tentabile, e la ricerca autonoma di strumenti per colmare le eventuali carenze.

Una bassa autoefficacia vede la dominanza di un orientamento a cogliere la parte negativa della sfida, la concentrazione prevalente sulle proprie lacune e non sulle proprie possibilità, l’assenza di sforzi per dotarsi di strumenti ulteriori che permetterebbero di sentirsi all’altezza.

Allo stesso tempo, l’autoefficacia si correla alla consapevolezza di dove, quanto e come siamo in grado di potercela fare da soli. Questo punto (indipendenza e autonomia) non deve essere confuso con una chiusura verso l’esterno e verso l’aiuto. Autoefficacia anzi significa anche capire e volere l’aiuto che serve a compiere un progetto, ma con una consapevolezza di dove realmente si colloca il confine delle proprie capacità autonome e dove è importante ricercare aiuto. Coltivare coscienza di sé è fondamentale.

Le persone che sviluppano un alto livello di autoefficacia hanno credenze positive sulle loro capacità di raggiungere i goal, accettano sfide superiori, e provano con maggiore forza e impegno a raggiungere i loro obiettivi, dando il massimo delle loro capacità.

Chi ha una alta autoefficacia, pensa, agisce e affronta una sfida come se stia per avere successo. Chi ha bassa auto efficacia intraprende la sfida dandosi per perdente dall’inizio.

Diventa essenziale per ogni coach o counselor capire a quali modelli di autoefficacia sia stata esposta una persona, quali abbia assimilato, quali siano attivi, e soprattutto se vi siano dissonanze interiori o modeling negativi da fonte genitoriale o sociale, attivi sulla persona.

Alcune domande chiave da porsi o da porre in termini di coaching:

  • Che desideri stai frenando per colpa di competenze che ti mancano?
  • In quali campi ti senti efficace e in quali meno?
  • Guardandoti indietro, cosa tenteresti adesso? Quali progetti, idee o ambizioni hai frenato perché non ti consideravi all’altezza?
  • Guardando avanti, cosa ti darebbe soddisfazione, cosa vorresti dire di aver fatto tra 10 anni?
  • Di cosa ti pentiresti se dovessi pensare di morire senza aver fatto qualcosa cui tieni? Cosa in particolare?
  • Cosa vorresti poter dire di aver fatto di buono, la prossima settimana?
  • Facciamo un elenco di idee o progetti anche ambiziosi che ti darebbero gratificazione, sogniamo ad occhi aperti per un pò.
  • Se dovessimo pensare ad una tua giornata ideale, come sarebbe?
  • In un anno ideale, cosa faresti?
  • Quanto siamo lontani adesso da (… sentirsi bene, sentirsi felici, sentirsi gratificati, aver raggiunto i tuoi scopi, etc…), e perché secondo te?

Nell’osservare i propri ragionamenti, o quelli di un cliente, ci si potrà concentrare non solo sui contenuti, ma anche sul senso generale di possibilità, di autoefficacia, di padronanza, sulle auto-percezioni, sulle credenze che trasudano, sugli archetipi di sè che emergono, sullo spirito di avventura e ricerca, o invece di rinuncia e disfattismo che permeano la persona. Su questi sarà importante lavorare seriamente, ancor più che sui contenuti.

Principio 7 – Autoefficacia

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo non è consapevole delle proprie potenzialità reali;
  • l’individuo non è consapevole di come le proprie meta-competenze possano trasformarsi in competenze applicative su nuovi compiti;
  • l’individuo coglie prevalentemente gli aspetti di difficoltà di una sfida e non quelli di fattibilità;
  • l’individuo non si attiva in una ricerca autonoma di strumenti per colmare i propri gaps percepiti;
  • l’individuo sviluppa eccessiva dipendenza sugli altri per portare a termine un compito e non sa contare sulle proprie forze interiori, o percepirle correttamente.

Le energie mentali aumentano quando:

  • l’individuo prende coscienza delle proprie potenzialità, sia teoriche, che per prova diretta;
  • l’individuo prende coscienza delle proprie meta-competenze e della possibilità di tradurle in competenze applicative in campi nuovi;
  • l’individuo tiene in considerazione i margini di fattibilità di una sfida e non solo quelli di difficoltà, applicandosi per aumentare le opzioni positive;
  • l’individuo è proattivo e si adopera attivamente in interventi che aumentano le proprie risorse o colmano gap, e in progetti di apprendimento e accrescimento;
  • l’individuo ha pieno accesso alla proprie forze interiori, sa individuare bene quante e quali sono le proprie energie, competenze e abilità.

[1] AA.VV. (2004), La Chute Boxe sarà più dura, Reportage da “Fight Sport”, n. 2, ottobre 2004, p. 44.

[2] Bandura, A. (1994), Self-efficacy, in V. S. Ramachaudran (Ed.), Encyclopedia of human behavior (vol. 4, pp. 71-81), Academic Press, New York (Reprinted in H. Friedman [Ed.], Encyclopedia of mental health, San Diego, Academic Press, 1998).

Bandura, A. (1986), Social foundations of thought and action: A social cognitive theory, Englewood Cliffs, NJ, Prentice-Hall.

Bandura, A. (1991a), Self-efficacy mechanism in physiological activation and health-promoting behavior, in J. Madden, IV (Ed.), Neurobiology of learning, emotion and affect (pp. 229- 270), Raven, New York.

Bandura, A. (1991b), Self-regulation of motivation through anticipatory and self-regulatory mechanisms, in R. A. Dienstbier (Ed.), Perspectives on motivation: Nebraska symposium on motivation (Vol. 38, pp. 69-164), University of Nebraska Press, Lincoln.

[3] Beck, M. (2008), If at First You Don’t Succeed, You’re in Excellent Company, The Wall Street Journal, April 29, p. D1.

___

Articolo e contributi sviluppati in base agli studi esposti nel volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani, Studio Trevisani Communication Research & Human Potential, Franco Angeli editore (copyright)



Autoefficacia e resilienza: trovare in sè le risorse, e sapersi rialzare

Estratti sul tema “Autoefficacia e Resilienza” dal volume “Il Potenziale Umano di Daniele Trevisani,Studio Trevisani, Franco Angeli editore, Copyright

Senso di autoefficacia

Se credo di poterlo fare,

acquisirò sicuramente la capacità di farlo,

anche se all’inizio non dovessi averla

Mahatma Gandhi

L’autoefficacia è un concetto che fa riferimento al “senso delle proprie possibilità”. La coscienza di ciò che è veramente nella sfera delle nostre possibilità e quello che non lo è in un certo momento, ci permette di fare letture corrette della situazione e dei compiti che ci attendono, senza cadere vittima di demoralizzazione precoce o inutile.

Bandura[1], sviluppatore del concetto sul piano scientifico, considera che l’autoefficacia percepita sia un insieme di credenze che le persone possiedono rispetto alle loro capacità di produrre livelli designati di performance specifiche (non generali), esercitare influenza sugli eventi e sulle proprie vite.

Include, inoltre, l’atteggiamento positivo verso la capacità di raccogliere sfide o porsi nuove sfide.

Nel nostro metodo, riteniamo che l’autoefficacia dipenda largamente dall’autostima ma anche dalla consapevolezza corretta, non distorta, dei repertori di esperienze e competenze possedute e di ciò che con quei repertori possiamo fare. Spesso queste possibilità sono enormi e inesplorate.

L’autoefficacia produce il fatto di non abbandonare di fronte a punti d’arresto, perseverare (resilienza),  lavorando per ottimizzare i propri progetti, consapevoli della forza intrinseca che essi possono avere.

Come evidenziato in un articolo del Wall Street Journal, in un brano dal titolo illuminante: “Se all’inizio non hai successo, sei in una azienda eccellente”, i veri successi sono spesso preceduti da dinieghi o porte chiuse[2].

Tra i casi citati: il libro di J. K. Rowling rifiutato da 12 editori prima che una piccola casa editrice londinese lo pubblicasse come “Harry Potter e la Pietra Filosofale”, un successo mondiale. La Decca Records che, in uno dei primi provini dei Beatles, disse “non ci piace il loro suono”. Walt Disney fu licenziato da un editor di un giornale, dicendo che egli “mancava di immaginazione.” Michael Jordan (il più grande giocatore di basket della storia) non venne considerato da ragazzino all’altezza del team di basket della sua scuola superiore.

Senza una sana dose di autoefficacia e di resilienza, queste persone avrebbero abbandonato la propria strada.

L’autoefficacia richiede la consapevolezza dei propri strumenti operativi (tools funzionali) e dei propri strumenti analitici e conoscitivi di base (meta-strumenti). Sapere di poter imparare vale più della conoscenza in sé.

Se diminuisce la percezione di disporre di tali strumenti, prevalgono atteggiamenti di rinuncia, la continua richiesta di aiuto anche su ciò che è invece nel nostro campo di fattibilità, l’immagine di “non essere ancora pronto per…”, o il sentimento negativo “non fa per me, e non ci posso nemmeno provare, o prepararmi per…”.

L’autoefficacia richiede un certo grado di accettazione ragionata del rischio e la consapevolezza che – per molti task – non è indispensabile la perfezione prima di poter passare all’azione. Spesso è sufficiente una dose di comprensione (attuale o potenziale) della materia, un buon spirito di adattamento e una buona capacità generale di problem solving, per poter affrontare larga parte dei problemi o sfide manageriali, sportive, o personali.

La consapevolezza delle proprie meta-competenze è un punto basilare.

Non è necessario avere già fatto qualcosa per sentire di poterlo fare, ma è indispensabile avere coscienza della propria capacità di generare soluzioni, di analizzare problemi, di comprendere dinamiche, e sapere di poter apprendere. Questi meta-fattori aiutano ad accettare anche sfide e compiti sui quali non esiste ancora esperienza specifica diretta o consolidata.

L’autoefficacia non deve diventare sensazione di onnipotenza o delirio, va dovutamente bilanciata con la saggezza e senso pratico, ma questi ancoraggi al realismo non devono impedire di perseguire un sogno difficile che abbia qualche probabilità di successo. La paura di fallire o incontrare difficoltà non deve fermare aspirazioni giuste e sogni sfidanti.

Il caso di un docente cui viene chiesto di fare una lezione su temi non esattamente pertinenti alla propria formazione, ma vicini, è un esempio concreto. La flessibilità mentale è un fattore vincente.

Un docente che insegna statistica ed ha basso livello di autoefficacia non accetterà di insegnare una materia come la Qualità Totale (trovandovi molte differenze rispetto alla propria), mentre al contrario sarebbe assolutamente fattibile. Tale materia è ampiamente basata su metodi statistici. Aumentando l’autoefficacia, la stessa persona potrà lanciarsi verso l’insegnamento di Qualità Totale, ma anche altro, es.: Metodi di Ricerca, sapendo di avere sia una buona base e soprattutto le capacità di apprendimento che servono per poter acquisire ciò che manca.

In sostanza, quel docente conosce già almeno il 90% di un possibile programma, e sa che potrà apprendere il rimanente 10% con poco sforzo. Un individuo con bassa autoefficacia si concentrerà sul 10% da apprendere e sul come apprenderlo, un individuo con bassa autoefficacia lo vedrà come “quel 10% che manca, per cui non si può fare”. Una differenza notevole!

Lo stesso vale per un istruttore di karatè cui viene richiesto di insegnare difesa personale. Un istruttore con alto livello di autoefficacia capirà immediatamente che le sue skill di base sono ampiamente sufficienti ad insegnare a qualcuno come difendersi, e se percepisce una lacuna nel suo set di conoscenze si adopererà per colmarla. Un istruttore con basso livello di autoefficacia coglierà ogni possibile “scusa” per non farlo: “non è la mia materia”, “non so come si faccia”, “non sono preparato” etc.

Un’alta autoefficacia è basata sull’orientamento a cogliere, in ogni sfida, ciò che è fattibile, ciò che è realizzabile o quantomeno tentabile, e la ricerca autonoma di strumenti per colmare le eventuali carenze.

Una bassa autoefficacia vede la dominanza di un orientamento a cogliere la parte negativa della sfida, la concentrazione prevalente sulle proprie lacune e non sulle proprie possibilità, l’assenza di sforzi per dotarsi di strumenti ulteriori che permetterebbero di sentirsi all’altezza.

Allo stesso tempo, l’autoefficacia si correla alla consapevolezza di dove, quanto e come siamo in grado di potercela fare da soli. Questo punto (indipendenza e autonomia) non deve essere confuso con una chiusura verso l’esterno e verso l’aiuto. Autoefficacia anzi significa anche capire e volere l’aiuto che serve a compiere un progetto, ma con una consapevolezza di dove realmente si colloca il confine delle proprie capacità autonome e dove è importante ricercare aiuto. Coltivare coscienza di sé è fondamentale.

Le persone che sviluppano un alto livello di autoefficacia hanno credenze positive sulle loro capacità di raggiungere i goal, accettano sfide superiori, e provano con maggiore forza e impegno a raggiungere i loro obiettivi, dando il massimo delle loro capacità.

Chi ha una alta autoefficacia, pensa, agisce e affronta una sfida come se stia per avere successo. Chi ha bassa auto efficacia intraprende la sfida dandosi per perdente dall’inizio.

Diventa essenziale per ogni coach o counselor capire a quali modelli di autoefficacia sia stata esposta una persona, quali abbia assimilato, quali siano attivi, e soprattutto se vi siano dissonanze interiori o modeling negativi da fonte genitoriale o sociale, attivi sulla persona.

Alcune domande chiave da porsi o da porre in termini di coaching:

q  Che desideri stai frenando per colpa di competenze che ti mancano?

q  In quali campi ti senti efficace e in quali meno?

q  Guardandoti indietro, cosa tenteresti adesso? Quali progetti, idee o ambizioni hai frenato perché non ti consideravi all’altezza?

q  Guardando avanti, cosa ti darebbe soddisfazione, cosa vorresti dire di aver fatto tra 10 anni?

q  Di cosa ti pentiresti se dovessi pensare di morire senza aver fatto qualcosa cui tieni? Cosa in particolare?

q  Cosa vorresti poter dire di aver fatto di buono, la prossima settimana?

q  Facciamo un elenco di idee o progetti anche ambiziosi che ti darebbero gratificazione, sogniamo ad occhi aperti per un pò.

q  Se dovessimo pensare ad una tua giornata ideale, come sarebbe?

q  In un anno ideale, cosa faresti?

q  Quanto siamo lontani adesso da (… sentirsi bene, sentirsi felici, sentirsi gratificati, aver raggiunto i tuoi scopi, etc…), e perché secondo te?

Nell’osservare i propri ragionamenti, o quelli di un cliente, ci si potrà concentrare non solo sui contenuti, ma anche sul senso generale di possibilità, di autoefficacia, di padronanza, sulle auto-percezioni, sulle credenze che trasudano, sugli archetipi di sè che emergono, sullo spirito di avventura e ricerca, o invece di rinuncia e disfattismo che permeano la persona. Su questi sarà importante lavorare seriamente, ancor più che sui contenuti.

Principio 7 – Autoefficacia

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo non è consapevole delle proprie potenzialità reali;
  • l’individuo non è consapevole di come le proprie meta-competenze possano trasformarsi in competenze applicative su nuovi compiti;
  • l’individuo coglie prevalentemente gli aspetti di difficoltà di una sfida e non quelli di fattibilità;
  • l’individuo non si attiva in una ricerca autonoma di strumenti per colmare i propri gaps percepiti;
  • l’individuo sviluppa eccessiva dipendenza sugli altri per portare a termine un compito e non sa contare sulle proprie forze interiori, o percepirle correttamente.

Le energie mentali aumentano quando:

  • l’individuo prende coscienza delle proprie potenzialità, sia teoriche, che per prova diretta;
  • l’individuo prende coscienza delle proprie meta-competenze e della possibilità di tradurle in competenze applicative in campi nuovi;
  • l’individuo tiene in considerazione i margini di fattibilità di una sfida e non solo quelli di difficoltà, applicandosi per aumentare le opzioni positive;
  • l’individuo è proattivo e si adopera attivamente in interventi che aumentano le proprie risorse o colmano gap, e in progetti di apprendimento e accrescimento;
  • l’individuo ha pieno accesso alla proprie forze interiori, sa individuare bene quante e quali sono le proprie energie, competenze e abilità.

[1] Bandura, A. (1994), Self-efficacy, in V. S. Ramachaudran (Ed.), Encyclopedia of human behavior (vol. 4, pp. 71-81), Academic Press, New York (Reprinted in H. Friedman [Ed.], Encyclopedia of mental health, San Diego, Academic Press, 1998).

Bandura, A. (1986), Social foundations of thought and action: A social cognitive theory, Englewood Cliffs, NJ, Prentice-Hall.

Bandura, A. (1991a), Self-efficacy mechanism in physiological activation and health-promoting behavior, in J. Madden, IV (Ed.), Neurobiology of learning, emotion and affect (pp. 229- 270), Raven, New York.

Bandura, A. (1991b), Self-regulation of motivation through anticipatory and self-regulatory mechanisms, in R. A. Dienstbier (Ed.), Perspectives on motivation: Nebraska symposium on motivation (Vol. 38, pp. 69-164), University of Nebraska Press, Lincoln.

[2] Beck, M. (2008), If at First You Don’t Succeed, You’re in Excellent Company, The Wall Street Journal, April 29, p. D1.

____

Estratti sul tema “Autoefficacia e Resilienza” dal volume “Il Potenziale Umano di Daniele Trevisani,Studio Trevisani, Franco Angeli editore, Copyright


Preparazione psicologica dei manager

Autore: Daniele Trevisani. Estratto dal volume “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano, 2009, Copyright

Tecniche della preparazione psicologica in campo ma­na­ge­riale

Anche il management aziendale trova di fronte a sé problemi da risolvere in cui sono fondamentali le strategie mentali che adotterà, ancora più della conoscenza dell’argomento.

Alcuni temi cardine della preparazione psicologica dei manager sono:

  • capacità decisionali (non procrastinare le decisioni, affrontare le problematiche, capire quando arriva il decision time);
  • capacità di ragionamento logico;
  • capacità di ragionamento creativo;
  • atteggiamenti di problem-setting (voler inquadrare i problemi veri e non accontentarsi di falsi problemi o problemi mal formulati);
  • saggezza decisionale;
  • distacco situazionale;
  • capacità empatiche;
  • variabili della personalità, es.: introversione vs. estroversione;
  • gestione emotiva;
  • creatività;
  • spirito di ricerca;
  • locus of control (localizzazione corretta della propria sfera di controllo e responsabilizzazione);
  • propensione al rischio, valutazione del rischio e atteggiamenti corretti;
  • crisis management e capacità di lavorare in stato di crisi;
  • capacità aumentate di apprendimento dall’esperienza (lessons learned);
  • capacità di autocritica, autoanalisi, spirito di umiltà;
  • capacità di rimproverare correttamente e costruttivamente, riprendere ove necessario, dare feedback;
  • capacità di gratificare, localizzare momenti e tempi in cui farlo;
  • analisi situazionale e percezione aumentata;
  • rimozione di manierismi e atteggiamenti di facciata inutili, senza intaccare la cortesia e la correttezza nei rapporti.

 

Per ogni profilo manageriale esistono esigenze di preparazione psicologica diversa. È importante quindi stendere una precisa wish-list (lista dei desideri) rispetto ai tratti psicologici importanti per i profili chiave (key-po­si­tions) in cui l’azienda gioca la sua partita sul mercato. Sbagliare e inquadrare male questi profili professionali dal punto di vista psicologico è drammaticamente dannoso.

Questo bisogno si estende anche sul piano delle abilità relazionali in azienda e fuori. Un manager preparato sui temi tecnici del proprio business ma debole nelle energie necessarie a condurre relazioni avrà poca strada avanti a se, così come un atleta fisicamente forte ma emotivamente molto fragile.

______

Copyright, Articolo estratto con il permesso dell’autore, dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano.2009. Pubblicato con il contributo editoriale di Studio Trevisani Communication Research, Formazione e Coaching.

Potenziamento delle competenze emotive e nuove competenze emotive

Autore: Daniele Trevisani. Estratto dal volume “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano, 2009, Copyright

2.5. Le nuove competenze emotive (mood awareness, mood labeling, mood monitoring, cognitive la­beling)

Bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare l’esempio.

(Jacques Prévert)

L’umore è uno degli elementi più esplicitamente correlati alle energie mentali, e dalle forti capacità “contagiose”, in bene e in male.

Un umore è una condizione emotiva di maggiore durata rispetto al­l’emozione istantanea, e meno collegata ad un singolo evento scatenante.

I tipi di personalità sono invece tratti più duraturi che predispongono a tipi di umore specifici. Lottare contro l’eredità umorale appresa è una sfida nobile.

Secondo Thayer, l’umore è un prodotto di due dimensioni, l’energia e la tensione[1]. Gli umori positivi avvengono in zone di energie elevate e stato di calma, mentre ci sentiamo peggio quando siamo in condizione di basse energie fisiche accompagnate a tensione emotiva.

Bassi livelli di energie mentali sono in genere accompagnati da condizioni umorali negative, tristezza, depressione, mentre alti livelli sono accompagnati da stati positivi, dal rilassamento sino alla gioia e all’euforia.

Ciò che ci interessa maggiormente in termini di coaching analitico è il concetto di mood awareness[2], la consapevolezza dello stato umorale, una capacità specifica ed allenabile, composta da mood labeling (saper etichettare lo stato emotivo in corso) e mood monitoring (saper monitorare l’anda­mento del proprio umore, coscientemente, tener traccia delle variazioni).

Il labeling, in particolare, rappresenta il ponte essenziale tra il sentimento interno e la possibilità di comunicarlo.

Comunicare ad altri come ci si sente è importantissimo, ed è tema di cui si occupano molte ricerche, che giungono a inquadrare il concetto di empatia interna[3], o la capacità di capirsi. Questa dipende anche dalla capacità di trovare etichette (verbali) per gli stati cognitivi e per i sentimenti vissuti.

Conoscere i propri stati e non negarli è essenziale, ma poi serve la capacità di descriverli e – soprattutto –  l’occasione fisica, vera, di parlarne a qualcuno che ci ascolti.  Trovare oggi chi sia in grado da farci da contenitore emotivo è qualcosa di estremamente raro, ma non è su questo che mi voglio soffermare ora. Il fattore tecnico è che anche quando questa occasione di ascolto accade, non siamo sufficientemente capaci di esprimere i nostri veri sentimenti con precisione. Di questo ogni coach, leader o psicologo dovrebbe tenere conto.

Più in generale, la capacità di riuscire a dare nome e descrizione ai processi mentali in corso (cognitive labeling skills) permette di crescere psicologicamente.

Infatti, non è per nulla scontato sapere come ci si sente, riuscire a riflettervi sopra analiticamente, o riuscire a comunicarlo, prima che gli umori diventino distruttivi. Molti subiscono lo stato umorale passivamente, o non riescono a condividerlo, o essere ascoltati, e in questo modo non arrivano a scardinare i meccanismi che lo generano, o replicare stati positivi.

Le energie mentali producono specifici stati umorali. Nella fig. 2 vediamo diverse tipologie.

La domanda primaria rispetto allo schema evidenziato è “come ti senti?” L’attività di scavo deve riguardare invece il “perché ti senti così?”

All’interno delle risposte devono essere notati e scoperti i meccanismi di ragionamento che depotenziano e corrodono l’umore, le azioni e stili di vita che avvizziscono la persona, gli stili cognitivi disfunzionali, le aree su cui lavorare, e tutte le azioni invece positive da consolidare e rinforzare.

La psicoenergetica nel metodo HPM si occupa dei fattori psicologici che producono tali stati soggettivi o livelli di umore.

In questo lavoro, non è possibile astenersi dal giudizio, non è possibile evitare di applicare valori e criteri di riferimento personali.

In questo, il coaching differenzia sostanzialmente dalla psicoterapia non direttiva, in quanto arriva a dare giudizi di valore e indicare strade da perseguire.


[1] Thayer, R. E. (1989), The biopsychology of mood and arousal, Oxford University Press, New York, NY.

Thayer, R. E. (1996), The origin of everyday moods: Managing energy, tension and stress, Oxford University Press, New York, NY.

Thayer, R. E. (2001), Calm Energy, Oxford University Press, New York, NY.

[2] Woodhouse, S. S., Gelso, C.J. (2008), Volunteer Client Adult Attachment, Memory for In-Session Emotion, and Mood Awareness: An Affect Regulation Perspective, Journal of Counseling Psychology, v. 55, n. 2, pp. 197-208, Apr.

[3] Jackson, E. (1986), Internal Empathy, Cognitive Labeling, and Demonstrated Empathy, Journal of Humanistic Education and Development, v. 24, n. 3, pp. 104-115, Mar.

______

Copyright, Articolo estratto con il permesso dell’autore, dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano.2009. Pubblicato con il contributo editoriale di Studio Trevisani Communication Research, Formazione e Coaching.

La relazione tra energie personali e aspirazioni personali

Autore: Daniele Trevisani. Estratto dal volume “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano, 2009, Copyright

2.2. Gli effetti positivi delle immissioni di energie sui livelli di performance e di aspirazione

In termini di psicologia positiva notiamo che l’immissione di energia in una qualsiasi cella può apportare maggiori energie al sistema, e quindi riflettiamo sul fatto che esistono molteplici modi e strade, enormi opportunità, per poter accrescere le energie personali e fare coaching e formazione di qualità.

La liberazione da una catena, o “togliere un sasso dal proprio zaino”, può aprire le strade della volontà per una scalata ulteriore. In generale, le immissioni di energie in un certo stadio aumentano il livello di fiducia in se stessi, autostima e percezione di autoefficacia. Aumenta il senso di libertà.

Le osmosi energetiche portano ad una maggiore propensione dell’indi­viduo verso l’assunzione di rischio positivo, di accettazione di sfide che prima il soggetto riteneva impensabili o troppo pericolose. Per rischio positivo intendiamo azioni che non siano minate da un livello di aspirazione malato, superumano e maniacale, condotte col cuore ma anche con la ragione.

I livelli di aspirazione sono decisamente correlati alle energie circolanti.

Gli studi scientifici di Bresson individuano il livello di aspirazione come “il risultato che un soggetto si dà per un fine da raggiungere, in un compito che ammette diversi gradi di realizzazione”[1].

A bassi livelli di energie personali corrispondono bassi livelli di aspirazione. Le energie si abbassano drasticamente, e i compiti o goal che l’individuo sente di poter gestire si richiudono sempre più entro una nicchia, sino ad implodere, se la tendenza non viene invertita.

Quando mancano le energie, ogni rischio assume sembianze mostruose, persino lo scendere in strada, o l’incontrare altre persone. Al contrario, forti osmosi energetiche positive (contaminazioni positive tra energie fisiche, mentali, competenze, volontà) conducono alla voglia e consapevolezza di poter accettare sfide e rischi superiori, persino lanciarsi con un paracadute, o condurre una operazione chirurgia al cervello (per un medico), o accettare la sfida di avere figli in un mondo difficile (per ogni genitore), o iniziare a pensare di potersi laureare, per qualcuno che aveva rinunciato a questa idea non sentendosi all’altezza, e tante altre occasioni di crescita.

Per questo motivo, nel metodo HPM, quando i canali per introdurre energie sono bloccati da un certo lato (poniamo i valori, o le competenze), è possibile sia teoricamente che concretamente aggirare questo ostacolo. Potremo partire dalla base delle energie fisiche, o da altri canali aperti o apribili, per incrementare le energie totali del sistema. È un lavoro sperimentato e funzionante nella pratica, di cui troviamo crescente supporto teorico.

Avviare il lavoro, e sbloccare i meccanismi, è più importante che fare un lavoro ingegneristicamente perfetto ma – nei fatti – solo teorico, vuoto.

L’effetto di trascinamento e di osmosi positiva avrà riverberi anche sugli altri stati altrimenti inaccessibili per via diretta.


[1] Bresson, F. (1965), Rischio e personalità. Il livello di aspirazione, in Trattato di Psicologia Sperimentale, a cura di Paul Fraisse e Jean Piaget (1978), Einaudi, Torino, p. 458. Edizione originale: Traité de Psychologie Expérimentale. VIII. Langage, communication et décision, 1965, Presses Universitaires de France, Paris.

______

Copyright, Articolo estratto con il permesso dell’autore, dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano.2009. Pubblicato con il contributo editoriale di Studio Trevisani Communication Research, Formazione e Coaching.

Verso il concetto di “Regie Terapeutiche”

hpm1Regie terapeutiche

Dal volume di Trevisani, Daniele (2007), Regie di Cambiamento. Approcci integrati alle risorse umane, allo sviluppo personale e organizzativo, e al coaching. FrancoAngeli, Milano. Diritti di riproduzione riservati. Sono possibili gli utilizzi per fini formativi, didattici e di ricerca, previa citazione dell’autore e della fonte. Altri materiali inerenti le Regie al sito www.studiotrevisani.it/hpm1. Vedi inoltre  Scheda sintetica del volume su IBS

________

Sul fronte terapeutico, il problema delle regie è quantomai attuale. Inutile raccontarsi bugie, credere ai proclami scritti nei documenti associativi e statutari, belli ma non reali. I terapeuti dotati di “fuoco sacro” per il loro lavoro sono sempre meno, ancora meno sono i terapeuti-ricercatori che osano sfidare le scuole di appartenenza e i testi ufficiali su cui studiano.

La psicologia e la psicoterapia sono tra i campi più afflitti dalla sindrome studiata da Kuhn, la resistenza alle rivoluzioni scientifiche che vengono “da fuori”, tale per cui le scuole professionali e di pensiero si autocelebrano, coltivano i propri eletti su basi di affiliazione, ostacolano il confronto con altre scuole, creano circoli chiusi. Questo in psicoterapia accade frequentemente. Gli psicoterapeuti in genere aderiscono a scuole, per esempio “sistemico-relazionale”, “comportamentale”, “rogersiana”, “cognitivo-comportamentale”, “psicodrammatica”, e i più rifiutano una convergenza interdisciplinare.

Aumentano i burocrati della terapia, i protocolli terapeutici pronti all’uso, da discount della guarigione, i protocolli diventano oggetti da usare senza pensare, gli strumenti psicometrici di misurazione tramite questionario divengono vangeli, mentre in realtà sono strumenti validi per “annusare” se va bene, ma non sufficienti per una regia terapeutica.

Il modello dell’intervento terapeutico, nella psicoterapia e nella terapia medica è ampiamente medico-centrico, e – nonostante gli innumerevoli sforzi (vedi i lavori di Carl Rogers per la terapia centrata sul cliente) coinvolge poco il cliente sulla metodologia, e persino sulle responsabilità.

Mentre nessuno può togliere al medico la decisione ultima (in qualità di  esperto) su quale scelta difficile fare, può invece evolvere enormemente il grado di condivisione del metodo, delle opzioni di intervento che viene applicato con il paziente.

Ad esempio, se vogliamo trattare il problema del dimagrimento di un obeso, dobbiamo sicuramente essere consapevoli che possiamo agire (come gamma di opzioni) sul piano medico, psicologico, comportamentale, e farmaceutico.

Ma – è questo il punto – il cliente deve fare delle scelte sul grado di rapidità del dimagrimento desiderato, sul tipo di restrizione e rinunce alimentari, o piuttosto sul fatto di non volere fare alcuna rinuncia e farsi impiantare un palloncino nello stomaco per togliere automaticamente il senso di fame.

Il risultato finale (dimagrire) può essere ottenuto con una mole tanto vasta di opzioni che risulta limitato pensare di agire con una sola strada terapeutica. È molto più ragionevole aumentare la consapevolezza del cliente sulle diverse opzioni, creare una convergenza di metodi, e aiutarlo a diventare protagonista della scelta tra le diverse opzioni.

E questo, beninteso, non significa diventare “buonisti”. Il modello delle regie non è in sè per nulla “buonista”, è assertivo, poiché ad un certo punto obbliga il consulente a divenire Regista, a scegliere un percorso, a prendersi delle responsabilità. Tuttavia, gli spazi per condividere il modello con il cliente, per farlo partecipe del processo, per assegnargli responsabilità e aumentare la compliance (collaborazione con il medico) sono enormi.

Il cambiamento volontario non è un processo che un soggetto attua e l’altro subisce (come molti pensano), ma un percorso nel quale i due soggetti devono collaborare, lavorare assieme.

Anche il cliente ha forti responsabilità nel percorso di cambiamento. Tuttavia, il cliente nel rapporto terapeutico ha la tendenza a “attendere istruzioni”. Nel “non detto” del rapporto terapeutico si crea l’attesa del cliente  di dover rimanere passivo e attendere ricette. Sarà difficile che sia il cliente stesso a “fare la prima mossa” e cercare di diventare co-protagonista nel processo e parteciparvi più attivamente. Il rischio di chi lo fa è di invadere il territorio psicologico del medico-terapeuta e di essere rigettato.

Esiste poi il problema del metodo. Agire con una regia in campo terapeutico significa utilizzare una serie di strumenti molto ampia, e coordinarli. Agire senza regia significa invece prendere appuntamenti con un terapeuta o medico, il quale deciderà di volta in volta cosa fare, o usare una sola dimensione della terapia, perdendo opportunità.

Esiste una forte presa di responsabilità nel terapeuta che decide di approntare una regia di intervento: pianificare i diversi strumenti (tools), e testare i suoi progressi sul campo[1].

La differenza tra un intervento terapeutico con regia o senza si coglie:

  1. dalla consapevolezza che ha il cliente di quale fase del percorso sta attraversando (senso della posizione);
  2. dal senso stesso del percorso che ha il cliente (senso del tragitto);
  3. dal fatto che il terapeuta abbia o meno approntato un percorso o agisca alla giornata (grado di organizzazione del percorso);
  4. dal fatto che vengano presi appuntamenti di volta in volta o si preveda un ciclo terapeutico basato su modello (auspicabile);
  5. dalla molteplicità degli strumenti di intervento che il terapeuta è in grado di mettere in atto (grado di varietà): la varietà dei metodi di cui dispone, la quantità di strumenti che si trovano nel toolbox o “borsa degli attrezzi” del terapeuta.

Un esempio pratico in campo psicologico: agire sull’ansia. Il terapeuta è in grado di scavare, far emergere la trasmissione transgenerazionale del disagio psichico, per capire se ci sono “assorbimenti” di modelli psicologici dai genitori (approccio psicodinamico e freudiano)? Ha il repertorio per fare questo? È in grado di attivare un vero clima di accoglienza incondizionata, di ascolto empatico, di seguire il flusso del pensiero del cliente senza forzarlo troppo presto, se e quando necessario (approccio rogersiano[2])? Conosce queste tecniche? Il terapeuta è poi in grado di dare “compiti per casa” al soggetto, per velocizzare il suo processo e favorirne l’autonomia (approccio cognitivo-comportamentale)?

È in grado di andare persino contro la sua scuola di pensiero di provenienza, e i protocolli appresi, se reputa utile farlo?

È in grado di lavorare sullo stile di respirazione del cliente, sul rilassamento, sulle tecniche di matrice corporea e bioenergetica, può insegnarli a fare training autogeno o altre tecniche? Conosce queste tecniche? O la sua scuola glielo impedisce? È in grado di “far provare” nuovi comportamenti, prima che il cliente li provi sul campo (tecniche teatrali)? Sa creare role-playing e psicodrammi? Sa lavorare con questi strumenti? O è chiuso nella sua “verità” monodisciplinare?

Ci fermiamo qui, ma potremmo proseguire con altre addizioni di strumenti, dall’Analisi Transazionale alla supplementazione alimentare mirata, per poi rituffarci nella Analisi della Conversazione (Conversation Analysis) e nella semiotica, e vedere che contributi possono portare per risolvere il problema del cliente.

Il meta-problema è la quantità di strumenti che il terapeuta sa mettere in atto (repertorio registico) e la sua capacità di coordinarli alla luce della situazione del cliente, facendoli diventare un flusso registico.

È difficile trovare terapeuti aperti alla multidisciplinarietà, esperti in più metodi, o qualcuno che non si chiuda in una sola visione del problema, o non si faccia limitare dalla sua scuola di provenienza – qualcuno in grado di predisporre un intervento multi-livello, concreto e allo stesso tempo ben fondato scientificamente[3].

Attorno al tema delle regie si ripresenta in tutta la sua forza il bisogno di un approccio olistico-pragmatico: Olistico: aperto al tutto, e Pragmatico, dagli effetti tangibili, concreto, pratico. Una preoccupazione che sta alla base del metodo ALM sin dal primo volume.


[1] Anche per gli interventi condotti secondo la scuola psicoterapeutica rogersiana, tipicamente non direttiva, è possibile predisporre delle regie estremamente sofisticate andando a stimolare aree di esplorazione psicologica tramite domande mirate, o integrando la terapia rogersiana con altri interventi comportamentali o con metodi di altre scuole, o con interventi di tipo farmacologico, o persino alimentare.

 

[2] Per approfondire i principi dell’approccio di Carl Rogers, vedi testi citati in bibliografia.

[3] Mi è capitato personalmente di chiedere ad una psicologa di un centro per l’handicap – partecipante ad un corso sulle performance organizzative – se siano state utilizzate tecniche di rilassamento e bioenergetica nei programmi per il recupero dell’handicap. La risposta: “no perché sono una terapeuta sistemico-relazionale” evidenzia una centratura sul T-mondo (il mondo del terapeuta) e non sul C-Mondo (il mondo del Cliente e i suoi bisogni). La risposta corretta e meno ipocrita sarebbe stata “No, non li conosco, non so quando e come usarli all’interno di un intervento, la mia scuola non li prevede”.

_______

Dal volume di Trevisani, Daniele (2007), Regie di Cambiamento. Approcci integrati alle risorse umane, allo sviluppo personale e organizzativo, e al coaching. FrancoAngeli, Milano. Diritti di riproduzione riservati. Sono possibili gli utilizzi per fini formativi, didattici e di ricerca, previa citazione dell’autore e della fonte. Altri materiali inerenti le Regie al sito www.studiotrevisani.it/hpm1


Dalla Spirale del Silenzio in avanti… questioni di repressione conversazionale

…vorrei condividere con altri un commento fatto con un amico, partito dalla questione della repressione in Birmania… il cancro non è solo la, nasce anche nelle nostre aziende, e nelle nostre case… è la Spirale del Silenzio in formato attivo, se bastassero le lezioni della storia, invece non bastano mai… la repressione parte con la limitazione conversazionale… che poi diventa repressione conversazionale, che poi diventa repressione fisica…

… se solo i nostri docenti di sociologia, scienze della comunicazione e semiologi si occupassero del fenomeno invece che di questioni irrilevanti per la società umana… se solo applicassero le loro conoscenze verso i probelmi veri come questo… ricordo un ex collega che fece un dottorato di ricerca in sociologia con tesi sui notai italiani, ….  i notai, capite, il vero problema di un sociologo, i notai… e adesso insegna all’Università di Bologna, pazzesco… la gente muore nel mondo, disuguaglianze pazzesche, ma noi paghiamo gente per qualcuno che decide di applicari a studiare il grave problema della sociologia dei Notai… una classse davvero disagiata… possiamo o no dirlo?… o abbiamo paura…

… tutto nasce dalla repressione conversazionale, un fenomeno scientificamente noto, vi prego di esaminare e capire questo fatto fondamentale… ne ho scritto un pezzo sul blog di Repubblica, per chi vuole vedere http://news.kataweb.it/la-spirale-del-silenzio-in-azienda-e-non-solo-301783

La vecchia legge: suggerimento per diffidare di chi fa promesse facili

Credo in una vecchia legge ancora valida, che dice:

“ciò che viene facilmente, facilmente se ne va. I funghi non possono cambiarsi in querce, e le querce non possono spuntar fuori come funghi” (Walter Pitkin, 1935).

In sintesi, credo sia ancora bene diffidare di chi ci promette cambiamenti rapidissimi, istantanei, risultati magici e facili, senza sforzo. E’ bellissimo credere di poter dimagrire in un attimo, poter cambiare una persona in venti minuti (vedi i suggerimenti di Anthony Robbins, pnllisti, e altri “miracolisti” anglosassoni), ma fuori dalla ignorante e misera cultura anglosassone manageriale, se osserviamo per un attimo la realtà e le culture greche, latine, arabe, e ancora le culture orientali che si dedicano allo studio dell’uomo da millenni, ogni traccia di saggezza indica la via del potenziale umano in un lavoro serio, duraturo, e nell’impegno… 

Daniele Trevisani

Psicologia del cliente: i giochi di emozioni e le trattative

Anticipare gli scenari: anteprime esclusive dalle pubblicazioni del Journal of Consumer Research
In questa serie, analizziamo in anteprima alcuni studi di frontiera della ricerca sulla psicologia del marketing. Questi contributi dello Studio Trevisani sono promossi dal dott. Daniele Trevisani, formatore aziendale Senior, esperto in Potenziale Umano e autore di “Psicologia di Marketing e Comunicazione“. Scopo di queste anticipazioni è aiutare le imprese Italiane e i manger Italiani ad avere un accesso diretto alle fonti primarie di conoscenza ed evoluzione del settore, anticipare alcuni dei concetti chiave che emergono dalla ricerca mondiale, e capire dove deve dirigersi la formazione aziendale seria,  impegnata, ricentrata su obiettivi formativi importanti e reali.
“La conoscenza e la formazione sono la materia prima dei nostri competitor. In questo ring, chi non sale preprato ha già perso” (Daniele Trevisani).
GS066010[1]Studio esaminato e commentatoConsumer Anger Pays Off: Strategic Displays May Aid Negotiations
(data di uscita: dicembre 2009)
Lo studio esamina le dinamiche degli emotion gaming (letteralmente, giochi di emozioni che avvengono durante le interazioni umane).
Si concentra in particolare espressioni emotive dei clienti e consumatori durante le trattative, in particolare le espressioni di rabbia e la modalità con cui essa viene “trattenuta” (de-escalation) o “esagerata” (escalation) durante le fasi finali di una trattativa.
Le conclusioni evidenziano come i negoziatori impegnati sul fronte della vendita siano in realtà sensibili alle espressioni emotive, arrivando a concedere maggiormente di fronte a clienti arrabbiati. Questo, tuttavia, ha una importante eccezione, il fatto che la percezione del comportamento del cliente sia effettiva e non sia generata “ad arte” per ottenere di più. In questo caso, il venditore riconosce la strategia in atto e riduce le proprie offerte.
Nostra sintesi sulle implicazioni pratiche nel business to business: sia chi vende che chi compra può trovarsi a fronteggiare buyer o venditori estremamente preparati ad agire in modo “teatrale” nell’espressione emotiva, e diventare “pilotato”. Può arrivare a concedere di più di quanto dovuto, o non capire i “giochi emotivi in corso”, e quanto questi siano reali o invece strategici. Chi vuole essere efficace deve realizzare training specifici sul riconoscimento degli stati emotivi durante le trattative e le comunicazioni aziendali quotidiane, ad esempio nelle vendite, negli acquisti, nei call-center, nel personale di front-line e di vendita di sportello, nel personale di assistenza e di servizio.
Ma non solo: chi vuole dare maggiore risalto alla propria capacità negoziale, dovrà apprendere tecniche specifiche di espressione emotiva, senza risultare in alcun modo “recitativo”, ma assolutamente sincero e reale, pena la nullità di qualsiasi effetto o addirittura la creazione di effetti boomerang. Ancora più importante è il contesto delle negoziazioni internazionali e interculturali, dove ogni cultura ha proprie specifiche modalità di esprimere emozioni quali la rabbia o realizzare pressing durante le negoziazioni. Questo aumenta la necessità per i manager, le aziende  e i comunicatori che operano sui mercati internazionali di conoscere la gestione cross-culturale delle espressioni emotive, e gli stili negoziali e comunicativi locali.
Nel business-to-consumer, e soprattutto nei punti vendita, vi sono una molteplicità di ruoli che si trovano costantemente, giorno dopo giorno, a fronteggiare clienti arrabbiati o emotivamente alterati (call-center, sportelli informativi, uffici relazioni con il pubblico, info-points, centri di ascolto, centri di assitenza). La formazione di questi operatori sulla capacità di gestire efficacemente le proprie emozioni e riconoscere i giochi emotivi in corso sembra da questo studio ancora più fondamentale rispetto ad un semplice fenomeno prima relegato a margine delle attività “aziendalmente pesanti”, e consolida la visione della formazione del personale di front-line come priorità da cui dipendono diversi esiti aziendali.
Sintesi delle aree principali in cui questa ricerca trova applicazioni:
– formazione per i call center, formazione degli operatori di call-center
– vendita, formazione vendite
– acquisti, formazione acquisti
– negoziazione, formazione dei negoziatori
– negoziazioni internazionali
– servizi tecnici e di assistenza, formazione degli operatori
– comunicazione nei punti vendita
Testo originale dell’anteprima
Consumer Anger Pays Off: Strategic Displays May Aid Negotiations
The time-honored tradition of displaying emotions to try to get a better deal might
actually work, but inflating emotions can backfire, according to a new study in
the Journal of Consumer Research.
Authors Eduardo B. Andrade and Teck-Hua Ho (University of California,
Berkeley) set out to examine “emotion gaming,” the act of either concealing a
current emotional state or displaying one that diverges from one’s true state, in an
attempt to improve a social (or consumer) interaction. An example of “emotion
gaming” would be exaggerating anger while negotiating with a car dealer.
The researchers developed several experiments to test “emotion gaming.” In one
experiment, participants, who were told their payment was contingent on the
outcome of two tasks, played two games involving interactive decision-making.
In one game, the Dictator Game, a “proposer” was endowed with a pot of money
to be split with the “receiver.” The proposers were led to make unfair offers,
which the receivers had to accept. The Dictator Game’s purpose was to
manipulate anger.
After recording their anger levels from the Dictator Game, participants played
another game (the Ultimatum Game) meant to simulate a retail situation where a
proposer offered a division of money and a receiver had to accept or reject it.
However, a rejected offer meant that both players earned nothing. “The UG can
capture the very last phase of a complex negotiation involving multiple stages (for
example, buying a new car) where one party gives the final take-it-or-leave-it
offer before walking away from the negotiation table,” the authors explain.
Half of the receivers were informed that their last anger report would be shown to
proposers before proposers made offers. The results showed that receivers inflate
their levels of anger when they know that proposers will see their anger display
before deciding on an offer. And the receivers readily acknowledged their
strategic displays of emotions, believing them to be persuasive signals.
“Receivers do get a better offer from proposers as long as proposers have reason
to believe that their partners’ feelings are genuine. When proposers learn that
receivers might be inflating anger, the impact of emotion gaming on proposers’
offers goes away,” the authors conclude.
Eduardo B. Andrade and Teck-Hua Ho. “Gaming Emotions in Social
Interactions.” Journal of Consumer Research: December 2009.

Autore  del post: Daniele Trevisani

Micro-video con concetti base sugli stili comunicativi, e applicazioni alle riunioni aziendali e altri contesti lavorativi

dr. Daniele Trevisani, www.danieletrevisani.com – micro-video  riassuntivo di alcuni concetti per una buona comunicazione:

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=xm5SxIyEsJE]

Per fare della formazione seria sulla comunicazione vera in azienda riflettiamo su diversi punti. Ne segnalo alcuni tra i tantissimi:

– è inutile investire tanto in comunicazione esterna (es: pubblicità) e non curare le comunicazioni vere di ogni giorno. Quando le comunicazioni interne reali (email, telefonate, incontri, colloqui, riunioni), tra persone, tra manager, e nei team, e coi clienti, sono inefficaci, l’azienda ne soffre ogni giorno. Le decisioni sono rallentate, le persone perdono tempo e motivazione, e ogni azione aziendale diventa lenta e faticosa e persino dannosa. Chi vuole risultati deve smettere di considerare la comunicazione come “pubblicità esterna” ed entrare nella mentalità della attenzione alla qualità in ogni micro-comunicazione quotidiana, sia interna che verso il cliente, in ogni contatto quotidiano.

– ogni comunicazione è caratterizzata da contenuti (il “cosa”) e da uno stile comunicativo (es: poetico, assertivo, pessimista, ottimista, prolisso, burocratico, decisionista, politichese, etc).

precisione e chiarezza del linguaggio sono fondamentali per non perdere tempo in azienda. Per ogni situazione occorre saper utilizzare stili diversi, es: poetico-visionario in una apertura motivazionale, concreto e pratico nella fase operativa

– per trasferire bene le informazioni occorre applicare concetti di “economia della comunicazione” (quante risorse uso, per ottenere cosa) – quanto impegno le mie risorse e le risorse altrui, e con che effetti

– dobbiamo distinguere i messaggi di tipo emotivo (che richiedono tempi diversi ed economie diverse) dai messaggi di tipo strettamente informativo, chiarire se vogliamo fare un colloquio in profondità con un collaboratore, o dare un semplice imput

aziendalese e politichese diventano non solo linguaggi, ma abiti mentali e atteggiamenti in cui le persone si nascondono per “fare altro”, esibirsi, o “fare melina”, anzichè preoccuparsi di trasmettere informazioni o condividere messaggi veri

– nelle riunioni aziendali notiamo spesso “diseconomie della comunicazione”, caratterizzati da uscite di tema frequenti, divagazioni, invasioni di atteggiamenti e temi improduttivi, in cui si impiegano 4 ore in chiacchiere inutili e auto-rappresentazioni, monologhi e show personali, per prendere decisioni o fare analisi che richiederebbero 20 minuti.

Vedi altre info e risorse in:

http://www.studiotrevisani.it (sito istituzionale in Italiano)

http://www.medialab-research.com/rivista.htm (iscrizione alla rivista gratuita di comunicazione Communication Research)

http://studiotrevisani.wordpress.com – blog con video, schede e risorse per la psicologia della comunicazione, formazione e management