Il dramma del “Divario Fondamentale”: la distanza tra bisogno percepito e bisogno reale di cambiamento; fare focusing per ridurre il gap di consapevolezza

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

 

Per capire come e dove occorre crescere serve la possibilità di osservarsi per “come si è”. Ogni sistema (persona, team, azienda) vive un dilemma interiore: da un lato “abita” la propria realtà dall’interno, dall’altro lato avrebbe bisogno di osservarsi dall’esterno.

Non potendo essere in due luoghi contemporaneamente, non ha in nessun momento l’occasione di potersi scrutare con la stessa lucidità con cui un estraneo – distaccato – vede le cose.

Riflessioni operative:

  • considerare l’esistenza di un possibile divario – anche forte o drammatico – tra esigenze auto-percepite e esigenze reali;
  • abbinare la propria autoanalisi a quella di visioni esterne o valutazioni esterne su cosa sia bene cambiare; ottenere feedback dall’esterno per poterlo comparare con le proprie percezioni e valutazioni interne;
  • rimanere umili (evitare dell’altezzosità che impedisce di ricercare il miglioramento) in ogni stato o condizione di vita.

Nelle aziende la soluzione ai problemi di organizzazione ed efficienza è spesso alla portata di mano, è sotto gli occhi di tutti, ma nessuno se ne accorge, poiché il problema stesso si nasconde nella quotidianità.

Un ladro in una via deserta è allo scoperto, ma in un mercato affollato si sottrae alla vista rapidamente. Un granello di sabbia su un tavolo pulito si può percepire, ma in una spiaggia si confonde. Lo stesso vale per i problemi aziendali e personali. Spesso in una famiglia basta uno sguardo alle conversazioni che avvengono a tavola per capire cosa non va, mentre i membri dall’interno si arroventano da anni in dilemmi interiori alla ricerca del “cosa succede” e “di chi è la colpa”.

Nelle aziende non nasce spontaneamente – una mattina – un fungo con su scritto “qui serve più leadership e meno lassismo”, oppure “qui manca la capacità di comunicare ai dipendenti”, o “dobbiamo dare più spazio alla meritocrazia”, ma bisogna scoprirlo osservando i micro-comportamenti quotidiani, le interazioni reali, una riunione o un colloquio informale, le voci di corridoio.

Collegare i sintomi alle cause è difficile, a volte impossibile. Numerosi meccanismi di difesa ci impediscono di vedere le cose come sono. È più facile dare la colpa al destino che riconoscere di avere assimilato dal padre o dalla madre un modo di essere improduttivo.

Una persona non scopre magicamente che sta perdendo tempo in una linea di pensiero arida ma lo deve scoprire focalizzando i sintomi e risalendo alle possibili fonti. E probabilmente da solo non ce la farà.

Un atleta, o un manager, difficilmente riesce a inquadrare da solo cosa esattamente dovrebbe perfezionare di sè e in quale direzione, e ancora meno cosa fare per crescere. Se costruisse un auto-piano di allenamento con molta leggerezza o supponenza verrebbe da dubitare sulla qualità della sua analisi. Il bisogno di crescita spesso nasconde dettagli che sfuggono all’auto-percezione.

Nella mia esperienza come coach di atleti di arti marziali, ho osservato come alcuni elementi particolari poco percepibili per l’atleta stesso – es.: l’altezza delle braccia mentre è impegnato in una tecnica di calcio – potevano spiegare molti errori. Il soggetto trascurava questo aspetto (perché occuparsi delle mani se sto colpendo con le gambe?). Il problema era tuttavia forte: le mani in posizione sbagliata creano un aumento del tempo necessario a ritrovare una guardia corretta, mentre assettandole bene si produceva un micro-risparmio di tempo in grado di fare la differenza. Solo un osservatore esterno poteva vedere questo dettaglio. Lo stesso vale per molti problemi connessi al cambiamento.

Ne troviamo esempi ogni giorno in azienda: il bisogno di rafforzare il marketing può essere solo un sintomo, che nasconde la presenza di un titolare invadente il quale pretende di fare da direttore marketing e commerciale. Poiché non ne ha le competenze – impedisce di fatto la crescita del reparto. Ogni tentativo di training in questa situazione può risultare improduttivo se le interferenze non cessano, ma scoprire questo “baco latente” è impresa non facile.

Il focusing – apprendere a focalizzare – è la strada da imboccare per smettere di vagare nel buio, in tentativi disordinati.

Il focusing è un processo generale, la cui radice non è riconducibile ad un unico autore. Dobbiamo a Gendlin1 la sua presenza e affermazione tra le scuole psicoterapeutiche contemporanee, ma francamente non possiamo dimenticare quanto i greci e i romani antichi abbiano insistito sulla necessità di focalizzare, ascoltare e ascoltarsi2.

Fare focusing è necessario per ridurre il gap di autoconoscenza, e – se un focusing attuato dal singolo è utile – un focusing aiutato da un professionista o consulente è spesso più efficace.

Riflessioni operative:

  • realizzare focusing (autoanalisi e analisi assistita) per far emergere aree di lavoro, lasciando fluire le proprie sensazioni in un ambiente psicologico non giudicante e di massima accoglienza, non valutativo;
  • raccogliere quanto emerge dal focusing per identificare possibili target di cambiamento.

Nel focusing auto-diretto, si corre il rischio di incontrare un forte gap di autoconoscenza: non conoscersi a sufficienza o illudersi di conoscersi.

È estremamente difficile riuscire ad auto-osservare lucidamente il proprio bisogno di cambiamento, passare dal livello di “sensazione” di un disagio o di una ambizione alla corretta localizzazione del dove, come, quando agire.

Il problema tocca anche l’azienda. A livello di autoanalisi troviamo un gap di consapevolezza anche per la Direzione Risorse Umane e per i leader di team, quando l’osservatore non coglie bene il quadro reale, e le “verità” si offuscano dietro a sintomi e sensazioni imprecise o falsi target.

Da questo derivano problemi a cascata, ad esempio:

  • sbagliare il piano formativo di una persona o di una azienda;
  • usare una strategia formativa meravigliosa ma praticabile solo sulla carta;
  • progettare utilizzando assunti e presupposti sbagliati;
  • scollegarsi dalla realtà, sfuggire il “come sono le cose realmente”.

Riflessioni operative:

  • considerare che la propria conoscenza sullo stato di cose può non essere corretta, o può essere viziata da distorsioni e autoinganni;
  • considerare quanta distanza è presente tra la “sensazione” vaga di un disagio o problema e la sua corretta identificazione, a livello di sede e di cause;
  • considerare che le prime sensazioni o “letture” – senza focusing adeguati – portano spesso a distorsioni, abbagli, valutazioni errate;
  • ricercare punti di vista e confronto multipli per ridurre il margine di errore;

1 Gendlin, E. (2001), Focusing. Interrogare il corpo per cambiare la psiche, Astrolabio, Roma. Ed. originale: Focusing-Oriented Psychotherapy. A manual of the experiential method; vedi anche E. Gendlin, (1996). The power of Focusing, Ann Weiser Cornell, (1996).

2 Vedi ad esempio Plutarco, L’arte di ascoltare. Mondadori, Milano, 2004. Altra fonte: Plutarco, L’educazione, traduzione e note di Giuliano Pisani, Ed. Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 1994, pp. 161-187.

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Il cambiamento come pulsazione e i segnali deboli

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

Il concetto di cambiamento come “pulsazione” o respirazione vitale è un ancoraggio primordiale cui tornare.

La vita nei suoi ritmi naturali è una pulsazione, un continuo flusso di ingresso e uscita, una respirazione viva, che lascia entrare e venire fuori, un battito che possiamo avvertire sin dal primo respiro di un neonato.

Un consulente esperto o chiunque abbia sensibilità sufficiente, può sentire “il respiro” e i suoi significati. Possiamo concentrarci sul “respiro dell’azienda”, “il respiro di un team”, il “respiro della persona” e capire se il clima è teso o rilassato, positivo o negativo, aperto o chiuso, formale o informale, se sono presenti veleni e blocchi, rigidità e tensioni.

Quando un sistema funziona, inesorabilmente emette segnali che indicano se esiste benessere e motivazione, o invece demoralizzazione, sconforto e rabbia repressa. Possiamo cogliere la presenza di obiettivi o il vuoto. Il “vuoto” si nasconde spesso dietro ad un’azione frenetica, priva di tattica e strategia.

Riflessioni operative:

  • analizzare i “segnali deboli” che indicano se il tipo di “respirazione” del soggetto (sia in senso fisico che metaforico, persona o sistema organizzativo) sia profondo e vitale, o superficiale e carico di tensioni;
  • portare l’analisi al livello delle motivazioni e della storia del soggetto, non limitarsi a suggerimenti rapidi o sintomatici.

Nella psicoterapia corporea, così come nelle scienze sportive, il tipo di respirazione è uno dei temi fondamentali di lavoro, poiché ad essa si correlano numerosissimi aspetti emotivi.

La respirazione sana e salutare non è frenetica e convulsa, ma anzi è profonda e ben riconoscibile. La crisi e sofferenza di chi psicologicamente sente il desiderio di cambiare ma non riesce genera respiro affannoso e contratto. Osservare come respirano le persone, quando parlano di sé o del proprio lavoro, può dire molto rispetto al vissuto emotivo sottostante e allo stato di equilibrio o squilibrio esistente.

Ogni consulenza o azione formativa energica è di per sé una “azione di scossa metabolica” in cui un sistema viene aiutato a ritrovare la propria respirazione ed equilibrio, rimettendo in moto la plasticità ed intervenendo sui tre principi fondamentali: immissione, espulsione, stabilizzazione.

Capire come intervenire volontariamente e con precisione chirurgica sui tre settori del principio metabolico è una sfida fenomenale.

Ogni processo di cambiamento profondo prevede l’esame attento di quali siano le operazioni da compiere sulle tre zone.

Un esame incompleto, l’attenzione ad una sola di queste aree, porterebbe a progetti sbagliati, incompleti, insoddisfacenti per chi li attua e per chi li riceve.

Principio 1 – Principio metabolico

Il cambiamento positivo viene favorito dalle seguenti operazioni:

  • acquisizione: riuscire ad identificare e riconoscere il bisogno di imparare, le acquisizioni importanti, ciò che si deve apprendere, assimilare, far entrare, per avvicinarsi all’obiettivo. L’obiettivo può essere qualsiasi target di cambiamento che si collega all’efficienza o ad un percorso autorealizzativo – immagine di sè ideale, organizzazione ideale o migliore, incremento della serenità o del senso di efficacia, della potenza personale o del sistema, della resistenza o resilienza, della capacità di problem solving, o qualsiasi altro traguardo;
  • consolidamento: è necessario identificare quali sono i punti di ancoraggio (valori, credenze, pensieri, comportamenti) che il soggetto o sistema vuole consolidare e far diventare riferimenti solidi;
  • rimozione: è necessario identificare e riconoscere ciò che sia importante cedere, rimuovere, abbandonare, cosa sia importante eliminare, ripulire, cosa disapprendere, cosa lasciar andare, di cosa disfarsi (identificazione dei cataboliti e degli elementi da espellere dal sistema).

     

    Il cambiamento viene bloccato o ostacolato da:

  • perdita di riferimento o incapacità nel capire cosa si debba acquisire, apprendere, far entrare (mancato riconoscimento dei target, dei “nutrienti” o ingredienti necessari per produrre il cambiamento);
  • focalizzazione sulla sola fase acquisitiva, senza identificare e riconoscere ciò che si deve abbandonare, disapprendere, rinunciare, lasciare dietro di sè (processi mentali, cataboliti mentali o scorie psicologiche, comportamenti, stereotipi, abitudini controproducenti);
  • perdita di ancoraggi fondamentali e indispensabili negli equilibri della persona o dell’organizzazione, mancanza di ancoraggi forti o punti di stabilità.

 

L’analisi riguarda qualsiasi tipo di ruolo o sistema. Posso chiedermi, come padre, cosa potrei fare per migliorare nel mio ruolo di genitore, cosa dovrei imparare, cosa non so fare adesso e dovrei apprendere (zona 3), posso chiedermi anche cosa dovrei smettere di fare per essere un padre migliore (zona 1), posso anche chiedermi cosa vorrei non fosse toccato, ma anzi consolidato, a cosa non vorrei mai rinunciare di me (zona 2).

Un atleta può chiedersi – ad un certo punto della sua carriera – dove vuole arrivare, a quale livello vuole competere, e cosa questa scelta comporta.

Lo stesso tipo di analisi vale per un ruolo aziendale, o per una intera organizzazione. Per un azienda possiamo infatti chiederci:

  • cosa deve apprendere questa organizzazione, chi ne ha bisogno, cosa deve entrare? (zona 3).
  • cosa deve smettere di fare questa organizzazione, cosa deve abbandonare, a cosa deve rinunciare, o di cosa deve sbarazzarsi, quali modi di pensare o di essere sono ora controproducenti o non più validi? (zona 1).
  • a cosa deve ancorarsi, cosa non è opportuno rigettare, ma anzi consolidare? Quali sono gli ancoraggi forti? (zona 2).

I meccanismi di autorealizzazione personale sono basati sulla plasticità del sistema o della persona, la sua apertura verso il cambiare e l’evolvere, l’accettazione che – in quanto esseri viventi – siamo soggetti al cambiamento.

Formarsi caratterialmente e fisicamente è uno degli obiettivi di ogni persona che abbia un senso di autostima sufficiente, e – rivolto ai figli – diventa uno degli obiettivi di ogni genitore sensibile. Come possiamo tradurre questo concetto verso la crescita di una intera azienda o intero team?

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Alchimie tra forze contrapposte: La lotta tra pulsioni di assimilazione, stabilità, rimozione

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

energie mentalienergie mentali

 

 

 

 

Il cambiamento positivo è il motore dell’evoluzione e riguarda ogni persona e ogni organizzazione. Il propulsore psicologico può essere un obiettivo da raggiungere, l’orgoglio, volontà, sogni e aspirazioni (motori psicologici positivi), o invece bisogno, sofferenza, necessità di rimuovere uno stato di disagio (motori psicologici negativi).

Chiunque desidera progredire deve mettere in conto un investimento concreto, fatto soprattutto di tempo ed energie mentali, e deve apprendere a ricentrarsi verso le priorità strategiche (azioni di ricentraggio).

Rimanere aperti a nuovi input riguarda indifferentemente la crescita personale, lo sviluppo delle aziende e delle organizzazioni, il mondo del business o quello dello sport. Nelle arti marziali, un Maestro afferma che:

…il praticante deve cercare sempre lo sviluppo delle sue conoscenze e perfezionarle nel corso della sua evoluzione… deve vivere in una perpetua situazione di apprendistato durante la sua esistenza, perché le situazioni e i metodi evolvono costantemente1.

Secondo questa visione, il cambiamento non è quindi un “atto finito”, ma un “atteggiamento di fondo”, un “amore” verso un percorso fatto di ricerca, di curiosità per il nuovo, di attenzione al nuovo, che mette in atto un meccanismo evolutivo costante.

Siamo sempre in qualche forma di “apprendistato” e possiamo sempre imparare qualcosa di nuovo. Tuttavia, ogni mutamento – volontario o subìto – richiede impegno e presenta un costo (tempo, energie, fatica), e molti non desiderano pagarlo o lo posticipano sino all’ultimo. Le conseguenze in questi casi non tardano ad arrivare.

I “mostri” contro cui lottare sono tanti. Tra questi la regressione verso l’abitudine, un meccanismo involontario che porta le persone a “rintanarsi” e rinchiudersi in riti quotidiani – a volte dannosi. Il “drago” prende anche sembianze di “politico”, attua meccanismi volontari quali il boicottaggio attivo del cambiamento (cercare di bloccare il processo e gli input esterni) e frena l’evoluzione di un sistema, per puro interesse personale.

Abbiamo ancora le resistenze ideologiche, valoriali, o i blocchi che chiunque mette in atto quando sente che altri cercano di attuare un ingresso nel proprio territorio psicologico. Ritroviamo ancora il problema delle energie per cambiare, la cui mancanza può frenare anche le migliori intenzioni. Si presenta inoltre il problema della competenza o incompetenza del consulente o formatore, chiamato ad aiutare il processo evolutivo.

Gli ostacoli possono essere tanti. Questa è solo una breve e incompleta rassegna delle sfide che ci attendono.

Nonostante le avversità che incontriamo, l’evoluzione è – e rimane – un fattore di sopravvivenza. In un certo senso siamo tutti “forzati del cambiamento”, costretti dall’ambiente a non fermarci, ad adattarci, a mutare, poiché il territorio fisico e sociale attorno a noi – e quello psicologico dentro di noi – cambia, è in costante evoluzione. Il movimento del terreno sul quale una persona poggia permette solo due cose: cadere, o trovare nuovi assetti ed equilibri.

Noi ci rivolgiamo a quelli che vogliono farsi trovare pronti nelle sfide, ricercano il grounding (radicamento, sentirsi fisicamente e psicologicamente ancorati) e allo stesso tempo possiedono spirito di ricerca e si sentono diretti verso un fronte positivo, un orizzonte, e amano lottare per questo.

Il “metodo registico” intende offrire strumenti e concetti utili a chi si occupa di cambiamento positivo e “formazione” nel suo senso più vasto, ma anche di evoluzione assertiva (guidata da principi), trasformazioni del modo di essere, di sistemi di apprendimento e di sviluppo organizzativo, e ancora di potenziale individuale, human potential e human performance, crescita e maturazione individuale o delle imprese.

I tre soggetti-tipo cui si indirizza il metodo sono (1) chi desidera praticare un percorso di evoluzione personale con maggiore consapevolezza dei meccanismi che lo governano; (2) i clienti e ruoli istituzionali strategici coinvolti in progetti sul cambiamento, sviluppo e formazione (dirigenti, leader e manager); (3) i professionisti esterni (consulenti organizzativi, formatori, coach, allenatori e direttori di team, aziendali e sportivi) chiamati a supportare e produrre performance, ad avviare relazioni di aiuto per “cambiare le cose” e “far crescere” (una persona, una squadra, un sistema).

Ognuna di queste persone deve essere aiutata ad acquisire le abilità e capacità fondamentali (key-learning) per far fronte a nuove sfide prioritarie (key-challenges). Cambiare e formarsi serve anche per poter affrontare le sfide.

La realtà ci presenta (nei casi migliori) organizzazioni e persone già pronte ad un cambiamento, anche forte. Ci offre anche organizzazioni e persone restie, o persino contrarie, e che tuttavia hanno bisogno di variare il proprio assetto perché non più adeguato. Nell’uno e nell’altro caso, dobbiamo capire come poter procedere, quale strategia adottare, e come muoverci per essere efficaci.

Nei box “cosa fare” – esposti durante il testo – evidenziamo alcuni suggerimenti operativi su vari temi che riguardano il facilitare il cambiamento, connessi agli argomenti trattati. Vediamo quindi il box seguente:

Riflessioni operative:

  • analizzare se e quanto un soggetto (persona o sistema) possa permettersi di non cambiare, alla luce delle sfide ambientali e sociali che lo attendono, o sia invece nella necessità di dover migliorare o progredire;
  • inquadrare i key-learning (apprendimenti chiave) in risposta alle key-challenges (sfide prioritarie) che attendono la persona (o sistema organizzativo);
  • valutare quanto il soggetto (persona o sistema) sia intenzionato ad impegnarsi in un percorso di cambiamento;
  • capire quali sono i blocchi verso il cambiamento;
  • creare un clima positivo verso il percorso di cambiamento, legato ai benefits che il percorso può produrre.

Può esistere quindi un metodo per inquadrare i bisogni di evoluzione in modo assertivo, mirato e finalizzato ad obiettivi strategici? Nel passaggio successivo esamineremo un’ipotesi: la visione del “principio metabolico”.

1 Cohen, Alain (2007), Principi I.D.S. Krav Maga, in Budo International, 1/2007.

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il Buonismo nella formazione provoca morti

naufragio nave Costa Concordia 14 gennaio 2012…e oggi ci risiamo… naufragio nave Costa Concordia 14 gennaio 2012… gente costretta a buttarsi in acqua.. morti e dispersi… pensa di essere lassù e non trovare più tuo figlio, un tuo amico, un tuo caro… e allora come è possibile su una nave supertecnologica, nel 2012… ancora una volta il Fattore Umano è la chiave decisiva che finisce per provocare morti e disastri evitabili. Come a Genova. Ma quando si decideranno le aziende, le amministrazioni, a fare formazione seria? Oggi sono gli “studenti” corsisti dei corsi di formazione a dare la pagellina al docente… e guai a contrariarli altrimenti segano fuori il docente… penso sarebbe ora che per tutte le posizioni di alta responsabilità, come sindaco, dirigente pubblico, comandante di navi, ufficiali di bordo, ufficiali delle forze armate, responsabili di servizi critici, di aziende a rischio, dirigenti d’azienda, servano corsi seri sul Fattore Umano, con tanto di esame finale, e SE NON LI PASSI TE NE VAI VIA DA QUELLA POSIZIONE E NON CI ENTRI NEMMENO… e questi corsi vadano ripetuti con ripassi ogni anno o due almeno, per vedere se ci sei o no… altro che “buonismo”, maledetto “buonismo” che provoca morti. La formazione è una cosa seria, maledettamente seria, altro che pagliacci da palcoscenico, corsifici, pagelline di gradimento…

La Motivazione

Il bisogno di Essere, il bisogno di Vivere, il bisogno di Agire… Trovare le strade che funzionano nel nostro viaggio personale

Di: dott. Daniele Trevisani – Fulbright Scholar, esperto in Potenziale Umano, Formatore Aziendale e Personal Coach di Manager e Imprenditori presso www.studiotrevisani.it – Sensei 8° Dan del Sistema Daoshi

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© Articolo elaborato dall’autore, con modifiche, dal volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Approfondimenti del volume originario sono disponibili anche al link www.studiotrevisani.it/hpm2   –

Chi è interessato a riprodurre o citare l’articolo deve chiederne autorizzazione scritta all’autore, via email. L’indirizzo di email è visibiile sul sito www.studiotrevisani.it – Non sono ammesse modifiche al testo.

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In ogni individuo esistono, in vari momenti della vita, necessità non risolte, desideri, ambizioni, ma anche urgenze cui dare risposta, come:

  1. il bisogno di sentire un’immagine di sé positiva,
  2. l’orgoglio per qualcosa che abbiamo fatto o vorremmo fare, in grado di motivarci,
  3. il bisogno di avere amici, amici veri, con cui parlare in profondità e non stare alla superficie delle cose
  4. il bisogno di status interiore (es, essere uno che lavora su qualcosa e non ha mollato i propri sogni)

Esistono tanti diversi modi per motivarsi: il bisogno di riscatto, il bisogno di esplorazione o superamento dei limiti personali, o bisogni economici e materiali. Ma esistono anche bisogni spirituali e trascendentali.

Il bisogno di chiedersi chi siamo, di sentire un senso superiore nella vita, che non sia comprare l’ultimo modello di cellulare.

Se se tali stati di insoddisfazione o aspirazione vengono canalizzati verso obiettivi o goal positivi, fattibili, può scattare un’attivazione sana. In caso contrario, tutto ciò che non riusciamo a canalizzare in energie positive ci distrugge da dentro, come una bomba inesplosa che perda il proprio liquido corrosivo.

Le necessità o bisogni hanno un doppio effetto (sia negativo che positivo) sulle energie mentali. Ad esempio, il bisogno di riscatto può produrre energie e mobilitare all’azione (voglia di emergere, voglia di “far vedere chi sono” o “far vedere cosa valgo”, “dimostrare che ce l’ho fatta”), ma allo stesso tempo la sua eliminazione può liberare energie prima racchiuse e concentrate in quel drive e renderla utilizzabile per altri obiettivi. E’ la stessa cosa che succede

quando finisce una relazione che non funzionava più. Improvvisamente si scopre il vuoto, e il vuoto fa paura, ma permette anche di correre meglio.

Il problema è quindi se il drive motivazionale assorba la giusta dose di energie e ne lasci altre disponibili. Il concetto di Self-Leadership Motivazionale, riguarda la capacità del soggetto nel liberarsi dalla “frenesia di risultato” e trovare motori profondi per i propri obiettivi, gestendoli senza farsi gestire da essi.

 Trovare il formato motivazionale che funziona

Tra i temi fondamentali da trattare si trova quello della percezione del task da compiere. Ogni task (compito) può avere letture diverse. Fare una ripresa di combattimento può essere un compito che carica di energie che fa paura nella sua stessa sola idea. Può caricare o distruggere, motivare o demotivare.

Un task può essere demotivante se affrontato con lo spirito sbagliato, e motivante se si trova lo spirito giusto con cui affrontarlo.

Non tutti i tipi di “spirito” o disposizione mentale funzionano nello stesso modo, e ciascuno dovrà trovare in sé o con l’aiuto del coach l’assetto mentale o format che più riesce a motivarlo.

Ad esempio, Victor Martinez, professionista di bodybuilding, afferma:

 

Io affronto una sfida contro me stesso e sono un gran lavoratore. Quando mi dicono di divertirmi alle gare, io penso che non è affatto così, perché è il mio lavoro. Nessuno dice a uno di andarsi a divertire in ufficio tutti i giorni alle nove di mattina, no? Io faccio il mio lavoro con il massimo impegno, e anche di più[1].

 

In questa testimonianza notiamo che il format motivazionale operativo, che funziona su questo atleta, è il costruire un concetto di “lavoro serio” nel suo programma di allenamento, una professionalizzazione di quello che per altri è un normale svago o passione (la palestra), facendolo diventare sfida contro se stesso, e non necessariamente un divertimento.

Per altri, questo format può invece essere distruttivo.

Questo atleta ha trovato un formato motivazionale che funziona su di sé, ma lo stesso formato applicato ad un suo collega potrebbe non funzionare o essere invece fonte di frustrazione continua e portare all’abbandono.

Su ogni persona è necessario un grande lavoro di personalizzazione.

Personalizzare la motivazione è un forte lavoro di coaching e formazione.

La motivazione si ritrova per molti nel format della sfida contro altri: per alcuni, il senso della sfida rimanda ad una visione di sé epica, maestosa, leggendaria, ed è il driver interiore più forte quando si tratta di produrre una performance in alcuni campi di battaglia professionale. In altri casi, il format si arricchisce di più strati motivazionali, ad esempio, sfida + contributo.

Nel caso seguente notiamo come si vadano a stratificare il format della sfida contro il nemico assieme al format della sfida contro la lesa maestà (sfida all’immagine di sé). I due motori psicologici, sommati, aumentano l’effetto.

La testimonianza è tratta da un intervista ad un combattente professionista, nella quale possiamo notare come l’energia della sfida, se ben canalizzata, possa produrre un dose supplementare di energie per la preparazione di se stessi:

 

Intervistatore: Quasi tutti ti davano per spacciato contro Tito Ortiz…

Tutti lo credevano imbattibile, tutti credevano che nessuno lo potesse battere nella categoria dei 93 chili, ma io ero li…. Ero anche pronto ad affrontarlo senza ricompensa, volevo questo titolo. Seriamente, mi ha fatto incazzare essere li e sen

tirli parlare come se io non rappresentassi la benché minima minaccia per lui.

Ciò ti ha offeso? Ma, non veramente. Ciò mi ha dato ancora più energia, mi ha fatto allenare ancora più intensamente[2].

 

I format motivazionali non devono essere unicamente o necessariamente mossi dal motore psico-agonistico. Altri possono trovare motivazione su un fronte opposto, nel format della “relazione di aiuto” (aiutare gli altri), o nell’espiazione (impegnarsi per scontare una pena), o nella vendetta (impegnarsi contro), o per una causa in cui credono (impegnarsi per).

In ogni caso, il lavoro del coach deve consistere nel trovare quale format motivazionale possa meglio funzionare sul soggetto, ma anche localizzare e rimuovere i format attivi sbagliati, che agiscono ora come modello errato e possono risultare distruttivi o controproducenti per la persona stessa, sebbene essi possano risultare buoni per altri, o aver funzionato in passato.

Ciò che ha funzionato in passato, in un contesto diverso può non avere più lo stesso effetto, o diventare persino controproducente. L’esame qui deve essere assolutamente situazionale e personalizzato.

In ogni sfida che ci attende, chiediamoci se stiamo cercando la componente del “divertimento” che può attenderci, la componente della “scoperta”, del “superamento” di un nostro limite. Proviamo a respirare a pieni polmoni l’aria di questo modo di vivere le cose, ci farà bene.

 

Dott. Daniele Trevisani

 

 

Note sull’autore:

 

dott. Daniele Trevisani (www.danieletrevisani.com), Fulbright Scholar, consulente in formazione aziendale e coaching (www.studiotrevisani.it) insignito dal Governo USA del premio Fulbright per gli studi sulla Comunicazione nel 1990, è Master of Arts in Mass Communication alla University of Florida e tra i principali esperti mondiali in Sviluppo del Potenziale Umano.

 

In campo marziale e sportivo, è preparatore certificato Federazione Italiana Fitness, praticante di oltre 10 diverse discipline, Maestro di Kickboxing, Sensei 8° Dan Sistema DaoShi® Bushido www.daoshi.it  – formatore di atleti e istruttori di Muay Thai, MMA, Kickboxing, Karate  (Kumite), Taekwondo, Full Contact, Sanda, K1, Autodifesa. E’ stato agonista negli USA nei trofei di Karate Open Interstile e campione universitario USA alla University of Florida.


[1] Berg, M. (2006), La svolta di Victor, Flex, n. 4, pp. 70-79. Rif. p. 75.

[2] AA.VV. (2004), IceMan Chuck Liddell, Reportage da “Fight Sport”, n. 2, ottobre, p. 30.

Formazione Aziendale: Assimilare tecniche formative dalle Arti Marziali e Sport di Combattimento

formazione e arti marzialiallenamento all'agonismospirito combattivoleadership e team buildingpreparazione fisica e mentale

Utilizzare per la Formazione Aziendale i metodi derivanti dagli sport di combattimento e dalle arti marziali

Il gruppo Daoshi è attivo nella formazione innovativa che utilizza i metodi e le tecniche delle Arti Marziali e degli Sport di Combattimento (es, Kickboxing, Thai Boxe, MMA) per ricavarne approcci e metodologie utili nella formazione aziendale.

In particolare, per quando riguarda il fronte del Potenziale Umano, della Leadership, la capacità di lottare e combattere in sfide che traggono ispirazione dalla metafora del ring ma trovano elementi comuni in ogni sfida aziendale, in ogni vendita complessa, in ogni progetto determinante per il futuro dell’impresa.

Dalla collaborazione tra esperienze diverse nascono idee innovative. E’ il caso dei programmi sviluppati in collaborazione con il dott. Lorenzo Manfredini, psicologo esperto in psicologia degli sport estremi, Direttore dell’associazione S.T.E.P.

Associazione STEP Consapevole – Counseling, Training Mentale e Psicocorporeo, Coaching e Psicologia del Potenziale Umano

Integrating Business Training with Sports Experience

Le arti marziali e gli sport di combattimento sono un canale di apprendimento privilegiato e una grande metafora della vita, dalle quali la formazione aziendale può ricavare metodi veri, nuovi, efficaci.

L’esperienza di formazione sportiva e manageriale si fonde nella capacità unica di realizzare progetti di formazione per aziende, fondati sul concetto di Potenziale Umano, di Sfida Positiva, di Step di Sviluppo Consapevole.

In tale ambito, il gruppo Daoshi collabora con l’associazione di Formazione e Counseling S.T.E.P. Consapevole, diretta dal dott. Lorenzo Manfredini, psicologo e allenatore della Nazionale Italiana di Apnea, esperto in psicologia dello sport, bioenergetica, psicoterapia e tecniche del Potenziale Umano, per realizzare progetti di formazione aziendale su misura, tarati sulle esigenze di specifici team aziendali, in grado di fare la differenza rispetto a formazione statica e passiva, puramente teorica, che caratterizza il panorama attuale della formazione manageriale.

I programmi riguardano una grande sfera di aree, tra cui:

  • Allenamento alla varietà e al lavoro in condizioni di incertezza
  • Le zone allenanti e le tecniche per generare stimoli al cambiamento
  • Il potere delle stimolazioni innovative
  • Formazione aziendale per la leadership
  • Condurre i gruppi efficacemente con carisma
  • Essere coach e creare spirito di squadra
  • L’agonismo positivo in azienda, la sfida, la motivazione
  • Carisma e autorità
  • Team ad alte prestazioni e team building
  • Sviluppo personale
  • Comunicazione efficace nei team
  • Creare team-players e sviluppare i potenziali personali
  • Resistenza e Resilienza
  • Mental Training: i metodi di Training Mentale utilizzati in campo sportivo per favorire concentrazione, lucidità, consapevolezza tattica e situazionale

I metodi derivano da una forte base scientifica e pratica, visualizzabili anche nella letteratura specifica pubblicata dagli autori. In particolare:

Autoefficacia e resilienza – Preparazione psicologica e allenamento della mente

La scalata verso il pieno possesso delle proprie risorse, preparare la mente a rialzarsi

Articolo e contributi sviluppati in base agli studi di Daniele Trevisani esposti nel volume “Il Potenziale Umano” con il contributo di Studio Trevisani Communication Research & Human Potential, Franco Angeli editore (copyright)

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Autoefficacia: sapere contare sulle proprie risorse reali. Mancanza di autoefficacia: non sentirsi mai all’altezza, essere “imprecisi” nel capire quali sono le nostre vere risorse che potremmo generare, potenziare o allenare. Quando una persona affronta un progetto o una sfida pensando in anticipo di fallire, il suo fallimento è quasi garantito. Ad esempio, non verrà mai tentata una gara, o una nuova tecnica, anche se vi sono possibilità per provarci. La paura di sbagliare o fallire prende il sopravvento. O in un’azienda, non si oserà mai lanciarsi in un progetto nuovo per paura di non farcela.

Resilienza: in estrema sintesi, sapersi rialzare dopo un fallimento, un momento difficile, una caduta, una crisi. Quando si considera il fallimento stesso come una conferma della propria incapacità, anzichè il risultato di svariate cause, alcune delle quali non dipendono da noi, non ci si riproverà e nemmeno (peggio ancora) nè si cercheranno strade alternative o diverse strategie. Resilienza e resistenza sono due concetti molto diversi. Essere resistenti ad un colpo significa sapervi fare scudo. Essere resilienti significa sapersi rialzare o riprendere dopo il colpo.

La preparazione mentale è quindi un obiettivo fondamentale per tutti: per gli sportivi, per chi opera nelle professioni, ma anche e soprattutto per le giovani generazioni che devono imparare a vivere in un gioco (la vita) al quale non si è mai davvero pronti, un gioco sempre ricco di trappole non annunciate e colpi duri che arrivano senza nessun preavviso.

Molti Maestri o formatori sbagliano (e sono stato tra questi) nel cercare di sviluppare la resistenza degli allievi trascurando la loro resilienza. Allo stesso tempo,  molti atleti curano moltissimo la loro forza e potenza ma al primo fallimento grave o trauma grave, abbandonano (caduta di resilienza). Questo ha a che fare con la corretta percezione delle nostre risorse.

Io auguro a tutti di coltivare la nostra capacità di rigenerarci, di tirarci su dopo un fallimento personale o sportivo, di non cedere alle forze negative e coltivare in noi quella potenza psicologica che può farci diventare speciali e utili al mondo come uomini, donne e creature in grado di dare qualcosa agli altri.

Ma so che non sono sufficienti gli “auguri”. In questo articolo cerco quindi di entrare con un pò più di dettaglio nel tema, cercando di fare della resilienza e dell’autoefficacia un vero e proprio progetto per noi stessi e per chiunque vorremmo un giorno aiutare a crescere.

I target delle attività di preparazione psicologica, le variabili su cui agisce, possono essere numerose, citiamo tra queste:

resilienza psicologica e resistenza allo stress;

  • forza emotiva e fragilità emotiva;
  • capacità di percezione;
  • capacità propriocettive (percezione dei propri stati interni);
  • capacità di analisi;
  • capacità di concentrazione;
  • capacità di focalizzazione;
  • capacità di rilassamento;
  • capacità di meditazione;
  • capacità relazionali (es.: empatiche e assertive).

Entra in campo quindi un tema fondamentale, quello della costruzione psicologica e dei suoi metodi. In campo sportivo questo tema è stato accettato e riconosciuto dai trainer e coach più evoluti, come nella testimonianza che segue, mentre viene ignorato dai più.

Rimanendo nella metafora sportiva, la testimonianza seguente viene dall’allenatore di una delle più forti squadre al mondo tra le discipline estreme di combattimento, Chute Boxe e Valetudo (una tecnica in cui sono ammessi i colpi e tecniche provenienti da più arti marziali, condotti realmente e sino al ritiro di uno dei contendenti o al KO).

Rudimar Fedrigo conosce gli ingredienti che hanno portato al successo la sua scuola: “la disciplina, il rispetto, l’amicizia, ecco come conduco la mia accademia da 25 anni. Quando si è il leader bisogna essere fermi e anche duri con i propri atleti. Ma questo non impedisce di essere presenti quando loro hanno bisogno, per aiutarli nei loro problemi personali, sentimentali, ecc. Preparare dei combattenti curando solo ed unicamente la parte fisica e tecnica significa prepararli male. L’aspetto psicologico per me, è ugualmente importante se non di più[1].

E quanto più il gioco si fa duro e competitivo, tanto più il fattore psicologico è in grado di fare la differenza. Questo non solo nello sport, ma anche e soprattutto nella vita quotidiana, o manageriale, che nei contesti odierni pone sfide estremamente difficili per chi la vive a pieno, senza ritirarsi né sfuggirla.

Dal capitolo 3 del volume “Il Potenziale Umano”

Senso di autoefficacia

Se credo di poterlo fare,

acquisirò sicuramente la capacità di farlo,

anche se all’inizio non dovessi averla

Mahatma Gandhi

L’autoefficacia è un concetto che fa riferimento al “senso delle proprie possibilità”. La coscienza di ciò che è veramente nella sfera delle nostre possibilità e quello che non lo è in un certo momento, ci permette di fare letture corrette della situazione e dei compiti che ci attendono, senza cadere vittima di demoralizzazione precoce o inutile.

Bandura[2], sviluppatore del concetto sul piano scientifico, considera che l’autoefficacia percepita sia un insieme di credenze che le persone possiedono rispetto alle loro capacità di produrre livelli designati di performance specifiche (non generali), esercitare influenza sugli eventi e sulle proprie vite.

Include, inoltre, l’atteggiamento positivo verso la capacità di raccogliere sfide o porsi nuove sfide.

Nel nostro metodo, riteniamo che l’autoefficacia dipenda largamente dall’autostima ma anche dalla consapevolezza corretta, non distorta, dei repertori di esperienze e competenze possedute e di ciò che con quei repertori possiamo fare. Spesso queste possibilità sono enormi e inesplorate.

L’autoefficacia produce il fatto di non abbandonare di fronte a punti d’arresto, perseverare (resilienza),  lavorando per ottimizzare i propri progetti, consapevoli della forza intrinseca che essi possono avere.

Come evidenziato in un articolo del Wall Street Journal, in un brano dal titolo illuminante: “Se all’inizio non hai successo, sei in una azienda eccellente”, i veri successi sono spesso preceduti da dinieghi o porte chiuse[3].

Tra i casi citati: il libro di J. K. Rowling rifiutato da 12 editori prima che una piccola casa editrice londinese lo pubblicasse come “Harry Potter e la Pietra Filosofale”, un successo mondiale. La Decca Records che, in uno dei primi provini dei Beatles, disse “non ci piace il loro suono”. Walt Disney fu licenziato da un editor di un giornale, dicendo che egli “mancava di immaginazione.” Michael Jordan (il più grande giocatore di basket della storia) non venne considerato da ragazzino all’altezza del team di basket della sua scuola superiore.

Senza una sana dose di autoefficacia e di resilienza, queste persone avrebbero abbandonato la propria strada.

L’autoefficacia richiede la consapevolezza dei propri strumenti operativi (tools funzionali) e dei propri strumenti analitici e conoscitivi di base (meta-strumenti). Sapere di poter imparare vale più della conoscenza in sé.

Se diminuisce la percezione di disporre di tali strumenti, prevalgono atteggiamenti di rinuncia, la continua richiesta di aiuto anche su ciò che è invece nel nostro campo di fattibilità, l’immagine di “non essere ancora pronto per…”, o il sentimento negativo “non fa per me, e non ci posso nemmeno provare, o prepararmi per…”.

L’autoefficacia richiede un certo grado di accettazione ragionata del rischio e la consapevolezza che – per molti task – non è indispensabile la perfezione prima di poter passare all’azione. Spesso è sufficiente una dose di comprensione (attuale o potenziale) della materia, un buon spirito di adattamento e una buona capacità generale di problem solving, per poter affrontare larga parte dei problemi o sfide manageriali, sportive, o personali.

La consapevolezza delle proprie meta-competenze è un punto basilare.

Non è necessario avere già fatto qualcosa per sentire di poterlo fare, ma è indispensabile avere coscienza della propria capacità di generare soluzioni, di analizzare problemi, di comprendere dinamiche, e sapere di poter apprendere. Questi meta-fattori aiutano ad accettare anche sfide e compiti sui quali non esiste ancora esperienza specifica diretta o consolidata.

L’autoefficacia non deve diventare sensazione di onnipotenza o delirio, va dovutamente bilanciata con la saggezza e senso pratico, ma questi ancoraggi al realismo non devono impedire di perseguire un sogno difficile che abbia qualche probabilità di successo. La paura di fallire o incontrare difficoltà non deve fermare aspirazioni giuste e sogni sfidanti.

Il caso di un docente cui viene chiesto di fare una lezione su temi non esattamente pertinenti alla propria formazione, ma vicini, è un esempio concreto. La flessibilità mentale è un fattore vincente.

Un docente che insegna statistica ed ha basso livello di autoefficacia non accetterà di insegnare una materia come la Qualità Totale (trovandovi molte differenze rispetto alla propria), mentre al contrario sarebbe assolutamente fattibile. Tale materia è ampiamente basata su metodi statistici. Aumentando l’autoefficacia, la stessa persona potrà lanciarsi verso l’insegnamento di Qualità Totale, ma anche altro, es.: Metodi di Ricerca, sapendo di avere sia una buona base e soprattutto le capacità di apprendimento che servono per poter acquisire ciò che manca.

In sostanza, quel docente conosce già almeno il 90% di un possibile programma, e sa che potrà apprendere il rimanente 10% con poco sforzo. Un individuo con bassa autoefficacia si concentrerà sul 10% da apprendere e sul come apprenderlo, un individuo con bassa autoefficacia lo vedrà come “quel 10% che manca, per cui non si può fare”. Una differenza notevole!

Lo stesso vale per un istruttore di karatè cui viene richiesto di insegnare difesa personale. Un istruttore con alto livello di autoefficacia capirà immediatamente che le sue skill di base sono ampiamente sufficienti ad insegnare a qualcuno come difendersi, e se percepisce una lacuna nel suo set di conoscenze si adopererà per colmarla. Un istruttore con basso livello di autoefficacia coglierà ogni possibile “scusa” per non farlo: “non è la mia materia”, “non so come si faccia”, “non sono preparato” etc.

Un’alta autoefficacia è basata sull’orientamento a cogliere, in ogni sfida, ciò che è fattibile, ciò che è realizzabile o quantomeno tentabile, e la ricerca autonoma di strumenti per colmare le eventuali carenze.

Una bassa autoefficacia vede la dominanza di un orientamento a cogliere la parte negativa della sfida, la concentrazione prevalente sulle proprie lacune e non sulle proprie possibilità, l’assenza di sforzi per dotarsi di strumenti ulteriori che permetterebbero di sentirsi all’altezza.

Allo stesso tempo, l’autoefficacia si correla alla consapevolezza di dove, quanto e come siamo in grado di potercela fare da soli. Questo punto (indipendenza e autonomia) non deve essere confuso con una chiusura verso l’esterno e verso l’aiuto. Autoefficacia anzi significa anche capire e volere l’aiuto che serve a compiere un progetto, ma con una consapevolezza di dove realmente si colloca il confine delle proprie capacità autonome e dove è importante ricercare aiuto. Coltivare coscienza di sé è fondamentale.

Le persone che sviluppano un alto livello di autoefficacia hanno credenze positive sulle loro capacità di raggiungere i goal, accettano sfide superiori, e provano con maggiore forza e impegno a raggiungere i loro obiettivi, dando il massimo delle loro capacità.

Chi ha una alta autoefficacia, pensa, agisce e affronta una sfida come se stia per avere successo. Chi ha bassa auto efficacia intraprende la sfida dandosi per perdente dall’inizio.

Diventa essenziale per ogni coach o counselor capire a quali modelli di autoefficacia sia stata esposta una persona, quali abbia assimilato, quali siano attivi, e soprattutto se vi siano dissonanze interiori o modeling negativi da fonte genitoriale o sociale, attivi sulla persona.

Alcune domande chiave da porsi o da porre in termini di coaching:

  • Che desideri stai frenando per colpa di competenze che ti mancano?
  • In quali campi ti senti efficace e in quali meno?
  • Guardandoti indietro, cosa tenteresti adesso? Quali progetti, idee o ambizioni hai frenato perché non ti consideravi all’altezza?
  • Guardando avanti, cosa ti darebbe soddisfazione, cosa vorresti dire di aver fatto tra 10 anni?
  • Di cosa ti pentiresti se dovessi pensare di morire senza aver fatto qualcosa cui tieni? Cosa in particolare?
  • Cosa vorresti poter dire di aver fatto di buono, la prossima settimana?
  • Facciamo un elenco di idee o progetti anche ambiziosi che ti darebbero gratificazione, sogniamo ad occhi aperti per un pò.
  • Se dovessimo pensare ad una tua giornata ideale, come sarebbe?
  • In un anno ideale, cosa faresti?
  • Quanto siamo lontani adesso da (… sentirsi bene, sentirsi felici, sentirsi gratificati, aver raggiunto i tuoi scopi, etc…), e perché secondo te?

Nell’osservare i propri ragionamenti, o quelli di un cliente, ci si potrà concentrare non solo sui contenuti, ma anche sul senso generale di possibilità, di autoefficacia, di padronanza, sulle auto-percezioni, sulle credenze che trasudano, sugli archetipi di sè che emergono, sullo spirito di avventura e ricerca, o invece di rinuncia e disfattismo che permeano la persona. Su questi sarà importante lavorare seriamente, ancor più che sui contenuti.

Principio 7 – Autoefficacia

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo non è consapevole delle proprie potenzialità reali;
  • l’individuo non è consapevole di come le proprie meta-competenze possano trasformarsi in competenze applicative su nuovi compiti;
  • l’individuo coglie prevalentemente gli aspetti di difficoltà di una sfida e non quelli di fattibilità;
  • l’individuo non si attiva in una ricerca autonoma di strumenti per colmare i propri gaps percepiti;
  • l’individuo sviluppa eccessiva dipendenza sugli altri per portare a termine un compito e non sa contare sulle proprie forze interiori, o percepirle correttamente.

Le energie mentali aumentano quando:

  • l’individuo prende coscienza delle proprie potenzialità, sia teoriche, che per prova diretta;
  • l’individuo prende coscienza delle proprie meta-competenze e della possibilità di tradurle in competenze applicative in campi nuovi;
  • l’individuo tiene in considerazione i margini di fattibilità di una sfida e non solo quelli di difficoltà, applicandosi per aumentare le opzioni positive;
  • l’individuo è proattivo e si adopera attivamente in interventi che aumentano le proprie risorse o colmano gap, e in progetti di apprendimento e accrescimento;
  • l’individuo ha pieno accesso alla proprie forze interiori, sa individuare bene quante e quali sono le proprie energie, competenze e abilità.

[1] AA.VV. (2004), La Chute Boxe sarà più dura, Reportage da “Fight Sport”, n. 2, ottobre 2004, p. 44.

[2] Bandura, A. (1994), Self-efficacy, in V. S. Ramachaudran (Ed.), Encyclopedia of human behavior (vol. 4, pp. 71-81), Academic Press, New York (Reprinted in H. Friedman [Ed.], Encyclopedia of mental health, San Diego, Academic Press, 1998).

Bandura, A. (1986), Social foundations of thought and action: A social cognitive theory, Englewood Cliffs, NJ, Prentice-Hall.

Bandura, A. (1991a), Self-efficacy mechanism in physiological activation and health-promoting behavior, in J. Madden, IV (Ed.), Neurobiology of learning, emotion and affect (pp. 229- 270), Raven, New York.

Bandura, A. (1991b), Self-regulation of motivation through anticipatory and self-regulatory mechanisms, in R. A. Dienstbier (Ed.), Perspectives on motivation: Nebraska symposium on motivation (Vol. 38, pp. 69-164), University of Nebraska Press, Lincoln.

[3] Beck, M. (2008), If at First You Don’t Succeed, You’re in Excellent Company, The Wall Street Journal, April 29, p. D1.

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Articolo e contributi sviluppati in base agli studi esposti nel volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani, Studio Trevisani Communication Research & Human Potential, Franco Angeli editore (copyright)



Archetipi – Bibliografia sulla Psicologia degli Archetipi

Libri principali per approfondire la conoscenza della psicologia degli archetipi

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La psicologia degli archetipi identifica i modelli fondamentali che guidano il nostro pensiero e comportamento, il nostro modo di pensare, di agire e di scegliere, di decidere cosa è importante o meno. Intervenire sui propri archetipi, e riconoscerli (prima di tutto) è un modo molto efficace, profondo e proficuo per ottere cambiamento positivo diretto verso nuovi traguardi personali e professionali.  Utile per riflettere e trovare spunti eccellenti per chiunque si occupa di formazione, di consulenza manageriale, di psicologia, comunicazione, management e potenziale umano, ma anche di psicoterapia, counseling e relazioni d’aiuto, didattica e sviluppo organizzativo, risorse umane e sviluppo dei team.

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Risvegliare l’eroe dentro di noi. Dodici archetipi per trovare noi stessi
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Altre letture consigliate sul tema dell’archetipo
L’alchimia delle parole. Un approccio archetipico al linguaggio
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Archetipi
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Gli archetipi dell’inconscio collettivo
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Sette archetipi per il quarto millennio. Psicoanalisi, simboli, scultura
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Strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale
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€ 22,00

La rana nella pozzanghera… (storie di ribellione e mancata ribellione)

Articolo di Daniele Trevisani, Copyright 2010, Studio Trevisani. Anticipazione editoriale dal volume Il Potenziale Umano.

… ogni essere umano possiede dentro di sè una energia che tende alla realizzazione di sè, e – dato un clima psicologico adeguato – questa energia può sprigionarsi e produrre benessere sia personale che per l’intero sistema di appartenenza (famiglia, azienda, squadra).

Oltre al clima psicologico favorevole alla crescita, è importante  la possibilità di non essere soli nel percorso e avere compagni di viaggio (condizione 1). Una condizione ulteriore indispensabile (condizione 2) è sapere dove muoversi, verso dove andare, poter accedere ad un modello o teoria che guidi la crescita.

Con questa duplice attenzione, lo sviluppo personale diventa un fatto perseguibile, non più solo un sogno o un desiderio.

Una persona, un’azienda, un atleta, una squadra, sono organismi in evoluzione che spesso anziché evolvere in-volvono, o implodono, si consumano.

Tutti desideriamo la crescita e il benessere ma a volte ci troviamo di fronte a risultati insufficienti (sul lavoro, o nei rapporti di amicizia, o nel nostro percorso di vita) e a stati d’animo correlati di malessere, sfiducia o calo di autostima.

Dunque, bisogna agire. Ma ancora più interessante – prima di affrontare il come agire – è capire quando nasce il bisogno. Alcune domande provocative:

  • Quali sono i limiti inferiori, i segnali che ci informano del fatto che è ora di cambiare, che qualcosa non va, o che vogliamo essere migliori o anche solo diversi? Dobbiamo aspettare di raggiungerli o possiamo agire prima?
  • Quando prendiamo consapevolezza del bisogno di crescere o evolvere?
  • Da cosa siamo “scottati”, quali esperienze o fatti ci portano a voler evolvere? Quali sono i critical incidents che ci segnalano che è ora di una svolta? Dobbiamo attenderli o possiamo anticiparli?

critical incidents possono essere eventi drammatici o invece di piccola portata, ma comunque significativi, come lo svegliarsi male e non capire perché. Può trattarsi di un accadimento che ci ha riguardato e non riusciamo ad interpretare, non riusciamo a capire cosa sia successo. Possono essere casi di vita come la perdita di un lavoro, o una trattativa andata male, una gara persa, un litigio, una relazione che non va, o anche solo la difficoltà a raggiungere i propri obiettivi quotidiani. Può anche trattarsi di una malattia fisica o sofferenza psicologica. In ogni caso, la vita ci presenta continuamente sfide che non riusciamo a vincere, e alcune di queste fanno male.

Spesso rimanere “scottati” (da un’esperienza o stimolo) è indispensabile per acuire lo stato di bisogno, ma – come dimostrano gli studi sulla fisiologia –  l’organismo degli esseri viventi si abitua anche a stati di sofferenza cronica e finisce per considerarli quasi accettabili. Finisce per conviverci.

La metafora della rana nella pozzanghera, vera o falsa che sia, è comunque suggestiva: leggende metropolitane sostengono che una rana che si tuffi in una pozzanghera surriscaldata dal sole reagisca immediatamente e salti via. La rana scappa dall’ambiente inospitale senza bisogno di complicati ragionamenti. D’estate, una rana che sia nella stessa pozzanghera – la quale progressivamente si surriscalda al sole – non subisce lo shock termico istantaneo e può giungere sino alla morte, poiché – grado dopo grado – il peggioramento ambientale procede, in modo lento e costante, e non si innesca lo shock da reazione.

Non ci interessa la biologia delle rane, se la leggenda sia vera o falsa, e nemmeno se questo sia vero per tutte le rane. Interessa il problema dell’abitudine a vivere al di sotto di uno stato ottimale o della rinuncia a crescere, la rinuncia a credere che sia possibile una via di crescita o (nei casi peggiori) una via di fuga o alternativa ad un vivere oppressivo, intossicato, o semplicemente al di sotto dei propri potenziali.

L’abitudine all’ambiente negativo porta ad uno stato di contaminazione e alla mancanza di uno stimo di reazione adeguato. Si finisce per non sentire più il veleno che circola, l’aria viziata o velenosa.

Bene, in certe zone dello spazio-tempo, del vissuto personale, l’aria è ricca di ossigeno, ma in altre, larga parte dell’aria che respiriamo è viziata, e non ce ne rendiamo conto.

In certe aziende, famiglie o gruppi sociali (e persino nazioni), la persona, e la risorsa umana (in termini aziendalistici) assomiglia molto alla rana: può trattarsi di uno stagno visivamente splendido e accogliente, con entrate sontuose e atri luminosi, ma che – vissuto da dentro – diventa una perfida pozza venefica nella quale non si riesce più a “respirare”, e si finisce per soffocare.

Nella vita gli ambienti circostanti mutano ma non sempre con la velocità sufficiente ad innescare lo shock da reazione, e ci si sforza di adattarsi o sopportare. In altre realtà opposte, l’ambiente è invece favorevole e permette all’essere umano di realizzarsi.

Lo sforzo di adattamento produce un adeguamento inferiore, un blocco della tendenza attualizzante: la tendenza ad essere il massimo di ciò che si potrebbe essere, la tendenza a raggiungere i propri potenziali massimi di auto-espressione. Il nostro scopo è invece di perseguire la tendenza autoespressiva ai suoi massimi livelli: la tendenza di ogni essere umano ad essere il massimo di ciò che può essere.

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Articolo di Daniele Trevisani, Copyright 2010, Studio Trevisani