Il principio metabolico e la plasticità del sistema: rimettere in moto il “respiro” della persone, del team o dell’ azienda

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

Abbiamo identificato tre fasi o operazioni indispensabili attraverso le quali focalizzare il cambiamento: cedere, consolidare, far entrare.

L’alchimia tra le diverse fasi è estremamente delicata. Spesso il fatto stesso di confondere il cambiamento con un apprendimento (es., con una lezione didattica) crea false premesse e false aspettative. Una lezione didattica raramente cambia la sostanza di una persona; “sentire parole” non equivale a capirle, ad assimilarle e ancora meno ad interiorizzarle. Chiunque di noi ha ascoltato docenti noiosi delle cui lezioni non ricorda assolutamente nulla.

L’approccio esperienziale all’apprendimento – e di riflesso al cambiamento – rappresenta una delle poche certezze cui ancorarsi: i cambiamenti efficaci sono quelli in cui le persone sono portate a vivere esperienze impattanti, “scottanti” – vissute e partecipative – e non solo “udite”. Sentir dire che qualcosa scotta non è efficace quanto lo scottarsi direttamente.

L’esperienza vissuta in prima persona è più efficace del semplice “udire” e “entra” con maggiore forza nel sistema target.

Vediamo quindi il box seguente:

Riflessioni operative:

  • non illudersi: per produrre impatto è insufficiente “parlare”, “dire”, “insegnare”, “fare una lezione”, o “mostrare” (approccio one-way): dovremo considerare le innumerevoli resistenze al cambiamento, e il fatto che servono angoli di attacco multipli;
  • prendere in considerazione ove possibile un approccio esperienziale in cui il soggetto possa “far pratica” e vivere il cambiamento (palestra di cambiamento) per interiorizzarlo progressivamente;
  • chiedersi quali esperienze sbloccanti possono scalfire le credenze attive, aprire la porta alla volontà di cambiare e crescere;
  • chiedersi come produrre un approccio esperienziale e partecipativo rispetto ai target di cambiamento e apprendimento.

Se confondiamo il cambiamento con la sola acquisizione o esposizione sbagliamo. Prendiamo come esempio il corpo umano: l’ingresso di nutrienti e sostanze (cibo, acqua, aria) non è di per se sufficiente alla vita. Se il corpo non fosse in grado di metabolizzare ciò che entra – gestire, digerire, espellere – morirebbe in pochi secondi.

Il sistema rigido (persona o team) blocca gli input in ingresso, non accetta messaggi difformi rispetto a quanto egli crede già. Chiude le porte a nutrimenti (let-in) – persone, pensieri e credenze – che rischiano di mettere in crisi ciò che lo sorregge, vede come pericolo ogni forma di estraneità o non conformità.

La poca informazione che entra non è adeguatamente rielaborata. L’output è ridotto, le performance sono scarse.

In un sistema “ingolfato” il flusso di cataboliti e scorie in uscita (let-out) è ostacolato e il sistema finisce per nutrirsi dei propri escrementi. Nulla viene lasciato uscire. Si tratta di una prigione fisica o psicologica tremenda.

Spesso la malattia diventa l’esito inevitabile della rigidità. Possiamo parlare di malattia fisica o del corpo, ma anche di malattia psicologica o patologie dei sistemi organizzati. Anche un piccolo team, come una squadra di calcio o di pallavolo, o un settore aziendale, può vivere queste fasi patologiche e “ammalarsi” di rigidità.

Riflessioni operative:

  • assumere un atteggiamento positivo verso la ricerca di nuovi input, ricercare stimoli, alimentarsi di nuove conoscenze anche trasversali e multidisciplinari (feed-in), permettere a nuovi concetti di entrare (let-in), per poterne esaminare e valutare la validità, la natura e sostanza senza preconcetti;
  • accettare l’eliminazione o rimozione di parti del sistema, come fase indispensabile a qualsiasi mutazione.

Chi ha vissuto un clima che impedisce l’ingresso di input non conformi alla ideologia dominante, o l’espressione esterna, sa cosa significa. Lager, gulag e altre forme di totalitarismo sono casi estremi e riguardano pochi, ma anche – più semplicemente – climi familiari o di coppia asfissianti, gruppi o aziende intossicati da “aria” psicologicamente malata, sono laboratori nefasti di esperienze tristi e dolorose, comuni a tantissime persone.

Il bisogno di cambiamento è diffuso. Riguarda persino il bisogno di una persona di “sfuggire da se stesso”, trasformare tratti di sé con i quali convive faticosamente (es.: ansia, insicurezze, paure, tratti di personalità).

Il cambiamento è al tempo stesso problema e risposta, contiene ambizione e spavento. Le persone vivono la dissonanza costante tra desiderio di evolvere e bisogno di fermarsi a riposare o trovare abitudini e consuetudini in cui rifugiarsi. Il bisogno di riposare è giusto e sano. Diventa malato quando una persona o sistema pensa di potersi riposare su una montagna di rifiuti tossici e continuare ad aspirarne le esalazioni, magari illudendosi di essere al sicuro.

I sistemi che non evolvono finiscono per dare prestazioni (performance) deludenti, prima di tutto su variabili soft o intangibili, poi verso fattori estremamente hard e a volte drammatici. Esempio: in azienda si parte dalla perdita di creatività o sensibilità umana, quindi si sviluppano climi psicologici inquinati e deleteri, successivamente i migliori manager iniziano ad andarsene verso la concorrenza, portando via progetti e clienti.

Ciascuno di noi può farsi dominare dalla frenesia quotidiana, arrivare alla incapacità di concentrazione e rilassamento, poi sopraggiunge l’irrigidimento mentale, quindi le relazioni conflittuali con tutti, quindi l’incomunicabilità e la perdita di affetti, o di lavoro. I primi segnali – come la perdita di vitalità esistenziale – se non colti e presi sul serio, inesorabilmente ricadono verso conseguenze molto tangibili (fallimento, caduta, malattia, depressione, morte).

Riflessioni operative:

  • valutare le performance del soggetto non solo rispetto a parametri classici, ma soprattutto riferendosi a indicatori qualitativi. Es.: in un’azienda, quanto l’amministratore delegato e ogni manager sia in grado di creare un clima di motivazione che riesca a trattenere i talenti in azienda, non solo misurare le vendite nel breve periodo;
  • per un individuo, valutare non solo (e spesso nemmeno considerare) il suo “conto in banca”, ma il suo stato di soddisfazione verso se stesso e l’approccio verso la vita, la sua vitalità esistenziale;
  • valutare l’apertura o rigidità del soggetto verso nuovi concetti o inputs.

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Evoluzione assertiva,verso le Effect-Based Operations

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

 

 

 

 

L’evoluzione è un processo che accade. Ogni creatura vivente o sistema organizzativo sono soggetti a mutazione, che lo desiderino o meno. Il vero problema è dirigere le traiettorie di questa evoluzione – decidere attivamente dove il sistema deve finalizzarsi – per creare benessere e performance.

È indispensabile una presa di coscienza sul fatto che le traiettorie evolutive dei sistemi senza governance (governo, direzione) sono spesso degenerative e possono dare esiti pericolosi (malattia, morte, fallimento). I casi di autogoverno efficace esistono, ma si presentano solo in sistemi che siano già maturi e consapevoli, e questi sono rari.

L’evoluzione assertiva prevede che cambiamento e intervento siano mirati agli effetti (centrate sui risultati da produrre) e non fini a se stessi. Cambiare per il gusto di cambiare non è il nostro obiettivo, anzi, ogni cambiamento o intervento che non risponda a criteri strategici è in realtà una diseconomia, una moda e non una necessità.

Cambiare strategicamente significa passare da uno stato X ad uno stato Y.

È essenziale che X e Y siano focalizzati (identificati). La Y (stato di destinazione) corrisponde ad un’evoluzione positiva, ad un migliore stato di adattamento (fit) e di benessere organizzativo, fisico o mentale, o ad una revisione strategica del sistema sul quale si intende agire.

Ogni obiettivo evolutivo è da valutare lungo un ideale asse dei tempi, un “percorso” che separa X da Y.

Gli interventi realmente assertivi generano una mutazione del trend, non “fumo”. Le regie creano “passaggi obbligati” tramite operazioni (operations) centrate sugli effetti da produrre (effect-based operations).

Come costruire le operations o stimoli che vada nella direzione voluta è il problema centrale delle regie.

Riflessioni operative:

  • valutare lo stato attuale del soggetto o sistema (stato X) rispetto agli obiettivi di evoluzione;
  • definire degli ancoraggi ideali futuri, gli stati ottimali cui tendere (stato Y);
  • valutare i passaggi, stimoli o operations che possono portare il soggetto da X a Y, selezionare gli interventi centrandosi sugli effetti (effect-based operations), evitare la dispersione di azione o su risultati non precisati o poco chiari.

Produrre assertivamente cambiamento quando necessario, e non solo facilitarlo quando il bisogno è già sentito, è un problema ulteriore.

Dare acqua a chi sente sete è abbastanza semplice. Offrire acqua a qualcuno che – perso in un’allucinazione sensoriale – non senta il bisogno di bere seppure disidratato è un problema più forte. Ovviamente, la sete riguarda il cambiamento e l’acqua qualsiasi nutrimento (conoscenza, comportamenti, valori, strumenti) o variazione che permetta di dare un contributo all’evoluzione positiva.

Condividere la necessità di avviare un percorso è uno dei passaggi indispensabili in un metodo registico.

Riflessioni operative:

  • sforzarsi di condividere l’esigenza di avviare un percorso;
  • inquadrare le traiettorie del “percorso” scelto per andare da X ad Y;
  • condividere l’analisi dello stato X e dello stato Y, dettagliatamente, affinché la condivisione di obiettivi sia profonda e non solo superficiale;

Altra questione essenziale è la ricerca di un equilibrio tra tecniche direttive e tecniche non direttive. Le tecniche direttive prevedono prescrizioni, modelli, concetti insegnati o distribuiti, regole o struttura, mentre le tecniche non direttive lasciano spazio all’autonomia del soggetto e alla sua personale ricerca di un percorso. Anticipiamo da subito che il modello delle regie propone un mix integrato tra le due, con una prevalenza sostanziale tuttavia (non ideologica, ma metodologica) per le tecniche direttive.

 

Riflessioni operative:

  • definire quali parti di un percorso di cambiamento hanno bisogno di (1) tecniche direttive, strutturazione, regole, protocolli, e (2) quali porzioni del percorso devono lasciare spazio a tecniche non direttive, auto-espressione, autoregolazione del soggetto o del sistema, alla ricerca di una propria strada per il miglioramento;
  • realizzare un mix equilibrato (direttivo/non direttivo) tra le diverse metodiche di intervento.

Desideriamo inoltre avviare una prima definizione e porre altre basi per un metodo registico:

 

Prima definizione: Il cambiamento è un processo di variazione nello stato di un sistema (persona, gruppo, o organizzazione) che prevede la scalata progressiva verso il pieno potenziale e la sua autorealizzazione.

Il meccanismo di cambiamento contiene sia (1) fasi di eliminazione, ripulitura, rifiuto, rimozione o disapprendimento, (2) processi di consolidamento e rafforzamento, (3) meccanismi di acquisizione (entrata) di nuovi concetti, modelli, teorie, atteggiamenti, comportamenti.

Le azioni finalizzate al cambiamento (operations) devono prevedere fin dall’inizio gli effetti da produrre, valutando quali mix di operations serviranno per produrre quali effetti.

 

Ogni singola parola di questa definizione meriterebbe enormi dibattiti e approfondimenti. Ci è sufficiente per ora concentrarsi sul fatto che il cambiamento desiderato è positivo, tocca il sistema dei valori profondi e non solo le azioni visibili, ha a che fare con la ricerca di orizzonti psicologici nuovi (diversi modi di essere, nuovi modi di “stare” nel mondo), mette in discussione lo stato attuale, impatta i temi del potenziale, della performance, e dell’espressione di se stessi verso una autorealizzazione profonda. In ultimo prende in considerazione gli effetti come parametro finale, definitivo punto di arrivo di qualsiasi processo assertivo e di qualsiasi investimento mirato.

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Ricercare una visione ispiratrice per il percorso: le tre zone del cambiamento

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Danie

le Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

 

 

 

 

Prima di acquistare un biglietto per una vacanza, occorre decidere il tipo di esperienza che si vuole vivere. È necessario ispirarsi ad una visione, a volte questo significa sognare, guardare oltre, decidere se si desidera viaggiare per far raccolta di fotografie o di emozioni, se stare da soli o in compagnia, e di chi. In altre parole, serve una visione ispiratrice. Anche nel cambiamento organizzativo siamo di fronte a questa scelta di fondo.

Un meta-modello, una visione ispiratrice che governa i modelli specifici di cui ci occupiamo, è il modello metabolico.

Nella nostra prospettiva, ogni soggetto (persona, team o azienda) – impegnato in un percorso di cambiamento – può essere assimilato ad una cellula. Una cellula che “respira” è viva, una cellula chiusa, imprigionata in se stessa, è morta.

Il sistema-cellula scambia informazioni o sostanze con l’ambiente esterno muta, evolve, si sforza di far entrare nutrienti, e cerca di espellere cataboliti (materiali di scarto), veleni o sostanze tossiche.

Agire sul cambiamento significa dare impulso a tali dinamiche.

Ogni sistema vivente, piccolo o grande – se desidera vivere – deve continuamente lavorare per mantenere i suoi equilibri interiori in un ambiente che cambia senza sosta. Il funzionamento descritto assomiglia molto a quello di una macchina, o di un’unità biologica, tuttavia la dinamica del cambiamento psicologico, culturale e organizzativo, non è estranea a questi processi.

Diversi approcci alla psicologia, come la Bioenergetica, riconoscono questo tipo di funzionamento:

un qualsiasi organismo, per quanto complicato, funziona sempre, nel suo insieme, come un’unica cellula. Le funzioni vitali dell’organismo quali l’espansione e la contrazione, la tensione verso l’esterno ed il ritiro in sé o all’indietro, l’assorbimento e l’emissione, sono regolate da quello che è conosciuto come principio del piacere1.

In altre parole, il cambiamento positivo cerca di portare tendenzialmente una persona o un sistema verso uno stato di maggiore piacere e soddisfazione (“andare verso”), rifuggendo da dolore e disagio (“allontanarsi da”).

Questo prototipo di funzionamento generale ha tuttavia delle aberrazioni pratiche e apparentemente illogiche, come la persistenza volontaria in uno stato di disagio, l’assunzione di sostanze (fisiche) o pensieri (mentali) che causano danni all’organismo.

Nel capitolo sull’omeostasi esamineremo come questi fatti siano da collegare ai meccanismi di regressione verso l’abitudine, il tentativo di mantenere equilibri, anche se precari o dannosi, mosso dalla pulsione umana verso la sedentarietà o dalla difesa del carattere da attacchi esterni. Lottare contro questi antagonisti del cambiamento, tra cui la “resistenza” e la regressione, fa parte di un’analisi registica del cambiamento.

In termini metaforici, possiamo evidenziare in un sistema umano che cambia tre differenti attività prima di tutto mentali, che corrispondono ad altrettante operazioni psicologiche concrete: acquisire, consolidare, espellere.

Nel metodo delle regie il cambiamento è visto come un meccanismo nel quale è necessario far luce su (1) cosa sia bene acquisire, far entrare (2) cosa sia bene mantenere, consolidare e (3) di cosa sia invece opportuno disfarsi, abbandonare, lasciare.

Si tratta del principio di base del metabolismo, la cui sostanza vale in ogni processo di cambiamento personale o aziendale, terapeutico o formativo.

Riepilogando, le tre aree di analisi principali individuate nel “modello metabolico” sono:

 

  • Zona 1: rimuovere, abbandonare, disapprendere, lasciar andare, disfarsi di…
  • Zona 2: consolidare, mantenere, aggrapparsi a, rafforzare, ancorarsi a…
  • Zona 3: acquisire, imparare, apprendere, assimilare, far entrare…

 

Il lavoro mentale di focusing (identificare, localizzare, far luce, diradare la nebbia, far emergere) consiste nella ricerca di quali siano i contenuti delle tre aree. Senza un focusing adeguato, un’azione che intende produrre cambiamento può diventare persino controproducente o avere effetti opposti a quelli desiderati, come un pugno sferrato nel buio può rischiare di colpire un amico.

1 AA.VV. (2007), Bioenergetica, in Wikipedia, enciclopedia online (al 4/1/2007).

 

 

 

 

 

 

 

 

Riflessioni operative:

  • analizzare cosa il soggetto (persona o sistema) deve disapprendere, abbandonare, eliminare dal proprio modo di essere, di agire o pensare; valutare le difficoltà sottostanti nel farlo, gli ancoraggi che rendono il cambiamento difficile, le pulsioni profonde;
  • analizzare e rafforzare gli ancoraggi di identità, di comportamento e di atteggiamento, sui quali si costruisce la propria solidità interiore;
  • valutare i bisogni di apprendimento, sia come conoscenza da immettere, che come comportamenti o atteggiamenti da far entrare per produrre sviluppo positivo.

 

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Strategie di vendita: il primato della comunicazione face-to-face

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Un produttore di ingranaggi che vuole vendere prodotti ad un costruttore di macchine non può certo pensare di fare pubblicità televisiva nel prime time “colpendo” 10 milioni di spettatori sperando che in questo “mucchio” vi siano i 3-4 decisori che contano, i responsabili acquisti e dirigenti dell’azienda cliente.

Ogni Business ha di fronte a sé due grandi strade: (1) le comunicazioni pubblicitarie, spesso costose, massificate, dagli enormi budget, figlie di un miraggio fatto di inutili lustrini sfavillanti, e (2) – soprattutto nel Business to Business – la scelta di formarsi come professionisti nel mondo delle negoziazioni interpersonali e incontri umani, tra persone vere.

Per la stragrande maggioranza delle imprese e delle organizzazioni non ha senso investire in pubblicità di massa, a tappeto, occorre imparare a colpire i decisori. Occorre un approccio più mirato.

Un club sportivo che deve ottenere una palestra da un Comune, dovrà convincere lo specifico dirigente, e probabilmente fare azione di sensibilizzazione anche sull’Assessore allo Sport. Non può certo pensare di persuaderli tramite un’inserzione su un giornale.

Dovrà per forza incontrarli di persona, negoziare con loro, vendere loro dei benefici e un’immagine di chi siamo e di cosa vogliamo fare. Dovrà dare garanzie di affidabilità, e la certezza che, come fornitori o come interlocutori, non saremo creatori di problemi per la loro carriera aziendale o politica.

Un contratto da stipulare per un appalto o una fornitura strategica non verranno mai aggiudicati se non attraverso trattative e incremento della conoscenza personale, fiducia, forti legami personali, percezione di benefici.

Ancora, pensiamo a quanta dose di “vendita” e “sviluppo del rapporto umano” vi sia in un colloquio di lavoro, e nella decisione di fidarsi di un certo professionista in ogni campo (medico o avvocato, dentista, fisioterapista, ingegnere o consulente), e persino in un corteggiamento, e nelle tante forme della seduzione.

Riflettiamo. È sufficiente affidare la seduzione o la costruzione della fiducia ad uno spot o ad un volantino, cartaceo o digitale che sia? Possiamo pensare che uno spot faccia per noi il “lavoro” del capire l’altro, entrarvi in relazione, e costruire una relazione solida?

La pubblicità non è inutile, è uno strumento che serve in casi molto specifici, ma non va confusa con la comunicazione in senso lato. Sono due gambe con le quali le aziende corrono, con la differenza che la gamba pubblicitaria è spesso bella e massaggiata e la gamba della formazione alla negoziazione e comunicazione umana, è amputata.

Siamo circondati e bombardati da pubblicità, da tecnologie di messaggistica, sino alla nausea, siamo stati riempiti di bugie e promesse vuote, e non ci fidiamo più. E abbiamo ben ragione di essere stanchi.

Per questo, molto peso è tornato al fattore umano e all’incontro umano, al guardarsi negli occhi, al voler capire con chi stiamo trattando, un momento essenziale per i progetti che contano davvero.

Il business del futuro è il risultato di progetti che le imprese, tramite le persone, conducono assieme ad altre imprese tramite persone umane, in carne ed ossa. È il ritorno del primato dell’uomo.

È in questo campo che si gioca una partita fondamentale. È questo il terreno dove ancora – e sempre più – conta la sensibilità che solo il fattore umano può portare.

Lavorare in partnership con i clienti è una sfida. Significa costruire dal nulla progetti su misura per il cliente, avere la capacità di offrire unicità e consulenza, qualità e soprattutto “valore relazionale aggiunto” che faccia la differenza tra noi e gli altri.

Il mondo degli incontri umani di business face-to-face è più “vero” di quello pubblicitario, è molto più frequente per le piccole, medie e grandi imprese, è un fatto quotidiano, e per le aziende è essenziale formarsi su questo.

Nelle comunicazioni personali, face to face, tutto conta: gli sguardi, le strette di mano, le trattative che le aziende conducono per concludere progetti, affidandosi a poche, selezionate persone in grado di capire situazioni complicate e condurre operazioni negoziali complesse.

In tali progetti si può essere annientati e deprivati di ogni potere negoziale, o “portare a casa” un risultato. Si può costruire o distruggere il futuro.

Sulle spalle e sulle capacità di poche persone, in poche ore di trattativa, si decide il destino di progetti destinati a cambiare intere aziende, il futuro del loro personale e delle famiglie che lavorano.

Lì, sul “teatro” della vendita e della negoziazione, si gioca il destino delle aziende.

E su questo fronte vogliamo stare, e rimanere.

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©Copyright. Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Strategic Selling. Psicologia e Comunicazione per la vendita”, Franco Angeli editore, Milano, 2011. Vietata la copia o riproduzione non autorizzata. Per contatti, vedi Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Vendite complesse: prepararsi da professionisti.

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

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Esiste una grande confusione in campo aziendale su cosa sia la formazione. Alcuni pretendono di preparare negoziatori e venditori tramite un paio di ore di lezioni teoriche in cui vengono propinate teorie e concetti astratti, affidandosi a professori universitari che non hanno mai venduto niente in vita loro.

Altri si affidano a persone che li faranno camminare sul fuoco raccontandogli che questo li porterà a dominare l’universo, con l’effetto pratico di fargli bruciare i piedi (se va bene), o li trascinano in meeting di vendita in cui dovranno cantare e ballare come poveri deficienti deliranti.

Altri assegnano incarichi a società di consulenza blasonate (le tante Consulting), e sperano di risolvere il problema (avere negoziatori e venditori preparati) affidandosi a presunti Guru che mostrano diapositive sfavillanti, frasi ad effetto, autori dai nomi esotici e famosi. Utile, ma insufficiente.

Altri ancora puntano sul “fai da te”, facendo affiancare i giovani a venditori anziani, senza filtro, con l’effetto pratico di propagare e disseminare tutti i loro errori per generazioni e generazioni.

Più che una formazione classica, serve una forte “sensibilizzazione”, qualcosa che vada oltre le regole stereotipate. Ad esempio, imparare a vedere come noi reagiamo alle comunicazioni altrui, come funziona il nostro dialogo interno[1], capire come esaminare una conversazione e cogliere le sue mosse strategiche, preparasi ad essere analisti.

La formazione seria è una forma di apprendimento molto forte, parte da un’autoanalisi che nessun PowerPoint può sostituire, e ci chiede di fare i conti con chi siamo veramente.

Al contrario dei seminari tenuti dai “corsifici”, un buon coaching in profondità (coaching personale o team coaching) può aiutare la persona e il team a prestare attenzione a ciò che prima gli sfuggiva, e questo non ha niente a che fare con la formazione classica.

Bisogna aiutare le persone a muoversi da professionisti, a “pensare” come professionisti. La ricerca del Potenziale Umano che si nasconde in ogni persona non è né facile né immediata, lo sappiamo tutti benissimo. Ma, a volte, cerchiamo scorciatoie che non esistono.

Le situazioni in cui la comunicazione cambia le cose sono tante.

Possiamo avere un colloquio di lavoro nel quale si decide una svolta nella vita, nel quale far emergere chi siamo e cosa valiamo.

Gli effetti di ogni parola e di ogni gesto saranno sommatori e decisivi.

Lo stesso bisogno di essere comunicatori efficaci tocca il problema di trovare un finanziatore per progetto, o un sogno da concretizzare.

Tante situazioni, un denominatore comune: il risultato delle attività di comunicazione e negoziazione cambia la vita. Affrontare questo mondo intrigante richiede l’esame di molte variabili. Ma cerchiamo prima un tratto comune e valutiamo quali sono le poche certezze di cui disponiamo.

Una prima consapevolezza di fondo è il bisogno di una grande serietà in chi opera nel mondo della comunicazione e della negoziazione complessa: essere coscienti del fatto che dagli esiti di una trattativa strategica dipendono svolte di tipo professionale, effetti che cambiano la vita, propria o altrui.

Se condotte bene, gettano le basi per un futuro migliore. Se condotte male, producono danni enormi.

Una seconda certezza: per comunicare bene serve formazione specifica, l’abito mentale di chi si prepara alla negoziazione, dedica ad essa risorse mentali, la gestisce come un’attività professionale e strategica (approccio mentale del Get-Ready Mind Set), e non trascura i dettagli[2].

Una terza certezza è il bisogno di curare la “macchina” del venditore, negoziatore o comunicatore, ancora prima di preoccuparci delle sue prestazioni esterne. Una persona che sta bene, piena di energie fisiche e mentali, avrà ottime chance di esprimere anche il suo potenziale comunicativo. Al contrario, una persona fisicamente debilitata o esaurita, e psicologicamente stanca o che si sente fuori ruolo, non farà altro che errori continui.

Come sottolinea un collega e amico, importante psicologo e counselor italiano, allenatore della nazionale italiana di Apnea e di campioni del mondo di apnea, quando ci si “immerge” nelle relazioni e nelle negoziazioni si va incontro, come fa un apneista, anche a se stessi e al proprio inconscio.

Possono emergere paure o incongruenze, ansie e timori ragionevoli o irragionevoli, coscienti o subcoscienti.

Se questi ci bloccano, ci rallentano, ne subiremo gli effetti negativi.

Al contrario una persona che abbia fatto un lavoro profondo su di sé può “immergersi” tranquillamente sia in acqua che nella più difficile trattativa, senza perdere in consapevolezza emotiva e rimanendo sostanzialmente sereno nonostante l’ambiente difficile che lo circonda[3].


[1] Per il dialogo interiore nelle situazioni di consumo e scelta di acquisto, vedi Bahl, S. e Milne G. R. (2010), Talking to Ourselves: A Dialogical Exploration of Consumption Experiences, in Journal of Consumer Research, Vol. 37, June 2010.

[2] La preparazione mentale a compiti successivi, e l’utilizzo delle risorse mentali, nella Consumer Research, è stata affrontata in un articolo specifico. Vedi Bosmans Anick, Pieters Rik e Baumgartner Hans (2010), The Get Ready Mind-Set: How Gearing Up for Later Impacts Effort Allocation Now, in Journal of Consumer Research, Vol. 37, June 2010.

[3] Manfredini, Lorenzo (2010), Appunti di counseling, materiale didattico riservato, Associazione Olos e Istituto di Dinamica Mentale, Ferrara.

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©Copyright. Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Strategic Selling. Psicologia e Comunicazione per la vendita”, Franco Angeli editore, Milano, 2011. Vietata la copia o riproduzione non autorizzata. Per contatti, vedi Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Riflessioni e ricerche su credibilità e fiducia

La Source Credibility – immagine della fonte, credibilità e comunicazione persuasiva

Articolo di Daniele Trevisani, © Studio Trevisani Communication Research

L’importanza della variabile “credibilità della fonte” nella persuasione è stata sottolineata già dai primi studi sulla materia, i quali avvalorano l’ipotesi seguente un’alta credibilità della fonte  ha più effetto nel persuadere un’audience che una fonte a bassa credibilità (Hovland e Weiss, 1952; Hovland, Janis e Kelley, 1953).

Assioma di credibilità

  • L’efficacia della comunicazione è correlata alla credibilità della fonte percepita dal ricevente dell’informazione.
  • Le dimensioni principali della credibilità (expertise e trustworthiness) devono essere entrambi presenti.
  1. La credibilità della fonte è definita da Johnson, Conklin e Pearce (1979) come una serie di percezioni provenienti da un ascoltatore riguardo la possibilità di essere creduto (believability) e accettato da questo.

Dimensioni della credibilità della fonte sono state investigate da vari autori, inclusi Hovland, Janis e Kelley (1953), Berlo, Lemert e Mertz (1969), McCroskey (1966), Tuppen (1974), Whitehead (1968), Markham (1968), e altri.

I primi contributi teorici identificarono alcuni fattori o dimensioni della credibilità  tra i quali  l’affidabilità (trustworthiness), la competenza (competence), ed il dinamismo (dynamism) (Johnson e altri, 1979).

Altri fattori presi in considerazione  in diversi studi sono l’expertise (ovvero esperienza della fonte, competenza tecnica, dal tratto semantico similare al fattore “competence”), il carattere”, e l’intento persuasivo. (Petty & Cacioppo, 1981).

Comunque, come McCroskey e altri autori (1972) indicano, i ricercatori  non dovrebbero aspettarsi esattamente la stessa dimensionalità della credibilità della fonte, dal momento che le dimensioni di valutazione possono variare a seconda di soggetti diversi, popolazioni e culture.

Assioma di variabilità culturale della fiducia

  • Le dimensioni di valutazione della fonte dipendono da fattori culturali e variano in funzione della cultura del ricevente. L’utilizzo di modelli comunicativi culturali funzionanti nella cultura della fonte non assicura il successo quando il messaggio viene trasferito all’interno di un’altra cultura

I due fattori principali, sui quali esiste un accordo generale, sono expertise e trustworthiness.

  • Il fattore expertise (considerato come “competenza” tecnica o “qualificazione”) si riferisce alla conoscenza e preparazione tecnica della fonte riguardo i fatti presentati nel messaggio.
  • Il fattore Trustworthiness si riferisce alla percezione  che la fonte del messaggio dica o meno la verità da essa conosciuta (oppure dia solo una versione parziale dei fatti), con lo scopo di manipolare i riceventi a loro insaputa.

Queste due dimensioni possono essere combinate costruendo una matrice di analisi della credibilità per formare quattro diverse tipologie di percezioni della fonte.

  1. alta expertise- alta trustworthiness: la fonte più credibile, essendo percepita come competente e affidabile;
  2. alta expertise- bassa trustworthiness: fonte inaffidabile
  3. bassa expertise- alta trustworthiness: fonte inesperta
  4. bassa expertise- bassa trustworthiness: fonte inaffidabile e inesperta.

Principio 12 – Assioma di credibilità della fonte

  • La percezione di expertise (esperienza, competenza) e trustworthiness (affidabilità, serietà, fiducia) determinano la valutazione della credibilità della fonte. La comunicazione strategica deve utilizzare fonti alle quali il ricevente riconosca livelli adeguati di expertise e trustworthiness (relativa al tema oggetto della comunicazione)

Altre caratteristiche della fonte, come attrazione fisica, similarità, e potere, sono state trovate positivamente correlate all’efficienza (e efficacia) della persuasione (Petty e Cacioppo, 1981).

La credibilità della fonte non è l’unico fattore che influenza la persuasione, ma può essere considerato un fattore facilitante.

Il concetto di “fattore facilitante” o “fattore facilitativo” è impiegato da Fishbein e Ajzen (1975) per categorizzare la classe di variabili che influenzano positivamente la persuasione, come credibilità della fonte e expertise, stile comunicativo, e altre.

Credibilità e Identità

Una problematica relativa all’interazione tra messaggio e fonte viene esposta da Chaffee (1982) il quale introduce la problematica denominata “Homophily-Credibility Explanation”, ovvero ipotesi uguaglianza-credibilità. Questa ipotesi si riferisce alla supposta maggiore credibilità di fonti che possiedono un alto livello di similarità (omofilia) con il ricevente.

Le ricerche empiriche non supportano pienamente questa ipotesi. Anche in questo caso, le interazioni tra caratteristiche della fonte, lo stile del messaggio e del ricevente giocano un ruolo determinante.

Una ricerca di Luk (1973) realizzata ad Hong Kong, riportata da Chaffee (1982) supporta questa ipotesi. La ricerca analizza il ricordo del contenuto di un messaggio pubblicitario e la valutazione del prodotto in funzione della diversità di codice per i soggetti. I soggetti appartenenevano a diverse classi sociali (Cantonesi – inferiore, e Mandarini – superiore) e ricevevano messaggi nel loro stesso dialetto o in un dialetto diverso. I risultati indicano superiori effetti persuasivi tra i soggetti che soggetti Cantonesi (quindi, parlanti un dialetto diverso).

Questi risultati divergono da altri ottenuti nella letteratura (Mackie, Worth e Asuncion, 1990, cit. in Cavazza, 1996) i cui dati mostrano che in generale i messaggi provenienti da membri dell’in-group (il gruppo di appartenenza del soggetto) hanno un impatto positivo maggiore rispetto ai messaggi provenienti da soggetti out-group (estranei al gruppo di appartenenza).

Tali risultati differenti possono essere spiegati ipotizzando un particolare rapporto con l’immagine del gruppo di appartenenza, in cui il grado di self-esteem (autostima, autovaluzionae) del gruppo funge da variabile interveniente.

In generale, quindi possiamo concludere che la comunicazione persuasiva richiede che la fonte del messaggio sia (1) o un membro dell’ingroup al quale il ricevente sente di appartenere – in caso di autovalutazione positiva dei membri dell’ingroup, o (2) membro di un gruppo diverso ma valutato positivamente in termini di immagine sociale e di credibilità da parte della target audience.

Nella comunicazione interpersonale, possono essere utilizzate diverse strategie del messaggio per ridurre la distanza ingroup-outgroup (ricerca di similarità, ricerca di identità comuni e superiori), oppure al contrario il messaggio può contenere forti elementi di allontanamento tra fonte e ricevente.

In generale, i messaggi basati sul “noi” creano minori barriere ingroup, mente i messaggi basati sul “noi contro voi” (es: “NOI dipendenti pubblici siamo diversi da VOI studenti universitari”, “NOI autisti e VOI pedoni, ecc..) aumentano le distanze tra fonte e ricevente e creano potenziali barriere alla persuasione.

Una identità intergruppo o interculturale emerge ogniqualvolta il messaggio posiziona la fonte in un gruppo di appartenenza diverso da quello del ricevente.

Assioma di distanza nelle identità create dal messaggio/fonte e positioning delle identità

  • La struttura verbale e non verbale del messaggio crea identità e fa emergere l’elemento del gruppo di appartenenza del mittente e del ricevente. Una gestione errata delle identità intergruppo crea potenziali barriere al messaggio persuasivo.
  • L’effetto persuasivo è condizionato dal posizioning d’identità che l’insieme messaggio/fonte emana verso il ricevente. Il positioning d’identità può costituire sia fattore facilitativo (ove si crei ammirazione e credibilità per l’identità emergente) o fattore detrattivo (ove l’identità emergente sia sgradita o contro-valoriale).

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Articolo a cura di Daniele Trevisani, ©  Studio Trevisani Communication Research

Riepilogo delle Keywords sul tema “Fiducia”

Fiducia e cliente

  • Source Credibility: Credibilità della fonte
  • Trustworthiness: essere degni di fiducia, meritevoli sul piano morale, potersi fidare di… sul piano umano
  • Expertise: competenza tecnica
  • Coerenza, nei
    • Messaggi
    • Comportamenti
    • Ambienti
  • Andare a caccia di dissonanze
  • Attenzione al cliente come persona (fattore umano)
  • Rispetto
  • Fiducia e legame con la soddisfazione (customer satisfaction)
  • Emozioni e segnali (consci e inconsci) ricevuti nel punto vendita = reazioni viscerali che si sviluppano nel punto vendita a contatto con ambienti e persone
  • Reazioni viscerali (istantanee, interiori, preconscie, non mediate dalla ragione, frutto di una elaborazione immediata)
  • Fiducia come “bonus” che crea benevolenza
  • Bonus euristico – credito relazionale che “lascia in secondo piano” difetti minori e predispone le persone meglio rispetto a quanto sarebbe se non vi vosse tale atteggiamento positivo verso il brand, il prodotto o la persona
  • Doppio livello di fiducia
  • Fiducia del cliente verso l’azienda
  • Fiducia del collaboratore verso l’azienda – il collaboratore stesso si fida dell’azienda? Che immagine ne ha? Come ne parla con gli altri all’interno? Come ne parla ai clienti?
  • Strategia di intervento sulla fiducia
      1. Analisi dei livelli di fiducia percepita, sia generale che localizzata
      2. Localizzazione di aree critiche
      3. Impegno verso la risoluzione
      4. Intervento concreto per il miglioramento
      • Capacità di localizzare le priorità su cui intervenire
      • Segmentazione e localizzazione (tangibles vs intangibles)
        • Aspetti tangibili e intangibili della fiducia
        • Aspetti tangibili per l’area food
        • Aspetti in tangibili per l’area food
        • Aspetti tangibili per l’area non-food
        • Aspetti in tangibili per l’area non-food

      Relazione tra fiducia e risorse umane

      • Responsabilità organizzative per la fiducia
        • Chi
        • Per cosa
        • In quali ruoli
        • Con quali confini
        • Come avviene la “delega” per il presidio dei fattori che generano fiducia o sfiducia
        • Localizzazione delle penombre organizzative e zone d’ombra nei confini di responsabilità
        • Chiarire le responsabilità
        • Comunicare al personale e sensibilizzarlo
        • Interventi di sensibilizzazione del personale sul tema della fiducia e percezione della fiducia nel cliente, dai comportamenti ai segnali deboli, aspetti visivi, olfattivi, ambientali, di prodotto
        • Buonsenso vs. procedura
        • Stereotipi e falsi miti sul buon senso “lo sanno tutti che…” o “lo capisce anche un bambino che…” non sono ragionamenti sufficienti. Cosa, quando e quanto possiamo lasciare al buon senso
        • Differenza tra addestramento e sensibilizzazione del personale. Addestramento: devo dirti ogni possibile cosa su cui intervenire e come farlo. Sensibilizzazione: devo metterti in condizione di accorgerti da solo delle cose
        • Cosa dobbiamo inserire in “procedure”
        • Quanta discrezionalità dobbiamo lasciare?
        • Autorevolezza vs. autorità. Autorevolezza come capacità di creare partecipazione. Autorità come strumento gerarchico che non genera automaticamente autorevolezza
        • Il valore dell’esempio

      La Fiducia è di casa in Coop

      di Roberto Meglioli resp. Servizio Marketing Coop Consumatori Nordest, Roberta Neri Ricerche e Ascolto Coop Adriatica, David Orvieto Area Commerciale Sait

      Tutti i giorni si vendono o si acquistano prodotti e servizi ma incartati di fiducia, significati, valori.

      Il flusso di messaggi trasmessi ai consumatori avviene all’interno di ogni punto di vendita tramite le merci, la loro esposizione, il rapporto con il personale.

      Prodotto servizio e relazione sono ciò che vendiamo, come lo esponiamo e valorizziamo, come lo raccontiamo.

      Ogni segnale, ogni messaggio all’interno del canale comunicativo “punto di vendita” raggiunge il consumatore anche tramite i segni involontari.

      Dobbiamo porre attenzione a come raccontiamo ciò che offriamo con competenza e passione.

      Competenza relativamente al prodotto e passione come accento della relazione.

      Si tratta di trasmettere tramite l’esposizione del prodotto segnali caldi e coinvolgenti che diano la sensazione di aiuto, supporto, accompagnamento, facilitazione visiva dell’atto di acquisto.

      Il consumatore vive sempre con incertezza la fase critica dell’atto di acquisto. Una valida esposizione può semplificare la lettura tra i prodotti e trasmettere informazioni utili per rassicurarlo nella scelta tra soverchianti possibilità.

      Ad esempio valorizzare prodotti stagionali, di provenienza geografica, ad alta intensità valoriale, oppure in apposite isole tematiche per enfatizzare la presenza di prodotti a scarsa rotazione o di nicchia, o penalizzati dall’allestimento e dal facing, dall’acquisto abitudinario e veloce, dall’assenza di comunicazione pubblicitaria.

      Una percentuale significativa di consumatori acquisisce informazioni ritenute importanti per effettuare l’atto di acquisto direttamente a punto di vendita. Ci scontriamo con la necessità da parte del consumatore di capire, decodificare, ricordare, porre attenzione su testi e messaggi.

      Avanza una cultura orale immersa nel frastuono di innumerevoli fonti comunicative.

      La comunicazione nel punto di vendita deve essere semplice, immediata, trasparente, esaustiva quanto basta per essere utile, onesta.

      L’interazione anche occasionale, che il personale ha con il cliente rappresenta un momento essenziale per trasmettere rispetto e attenzione nei suoi confronti, credibilità e competenza dell’insegna.

      Il consumatore vede il singolo addetto al quale si rivolge per ottenere un consiglio all’acquisto come il rappresentante principale dell’organizzazione di vendita.

      Occorre nei pochi secondi di interazione con il cliente trasmettere messaggi verbali e non verbali che comunichino: accuratezza nell’abbigliamento e nella presenza, disponibilità all’interazione, ascolto e comprensione di quanto comunicato dal cliente, sensazione di interesse e affidabilità, appiglio per la soluzione alla problematica avanzata.

      Non trascurare la fase di chiusura salutando gentilmente.

      La fiducia può portare ad uno stato di benevolenza del consumatore nei confronti di una marca o di un’insegna a tal punto da scusare e giustificare determinati errori a patto che siano riconosciuti ed affrontati anche in caso di risoluzione non positiva.

      Ambiente, punto di vendita, dipendenti devono trasmettere con coerenza segnali che costruiscano passo a passo una fiducia cumulata nell’agire quotidiano.

      Il legame tra soddisfazione del cliente e fiducia nel punto di vendita è stringente e direttamente correlato. Chi è più soddisfatto, è più propenso a raccomandare ad altri il punto di vendita, prova piacere ad effettuare gli atti di acquisto, si sente accolto, si sente come a casa propria.

      Un sorriso si ricorda per un sorriso si ritorna.

      Vivere Il Brand – Alcuni concetti fondamentali

      Vivere il brand: proposte e idee per una cultura amplificata di marketing e vendita

      Articolo di Daniele Trevisani, anticipazione editoriale dalla rivista Communication Research n. 2/2010, Copyright.

      Ogni azienda ha un marchio, persino un soprannome di persona, diventa un marchio.

      Come ogni marchio ha un proprio vissuto, propri alti e bassi, e un proprio valore, un “potere evocativo”, o “potenza semantica”, la potenza dei significati che riesce ad avere per una persona, per come egli la vive. Immaginiamo un centro fitness che riesca a diventare così potente, dal punto di vista semantico, da diventare il luogo davanti al quale si parte la sera per andare in discoteca. Il luogo nel quale dare appuntamento ad un cliente importante. Il luogo nel quale ti liberi dallo stress, il luogo nel quale cerchi la tua micro-vacanza quotidiana,  il luogo nel quale sai che potrai permetterti di allentare le barricate che devi porre ogni giorno verso lo stress.

      Un problema che osservo da una angolazione privilegiata, quella di consumatore ordinario che fa la spesa e acquisti, che vive lo sport e la famiglia, che vive gli acquisti come ogni persona, e contemporaneamente consulente/formatore che fa ricerca sui processi di acquisto, è quello della dissonanza opposta ad una ricerca di consonanza tra marchio e comportamenti osservabili in alcuni ambiti aziendali.

      Ho sempre trovato di estremo interesse la psicologia del marketing quando questa aiuta ad andare incontro ai bisogni delle persone, odiandola altrettanto per la sua capacità, se usata male, di creare bisogni stupidi o dirottare le priorità vere delle persone su valori subdoli e pericolosi. Verso alcuni temi di marketing e la parole connesse a questa sfera aziendale, dobbiamo riconoscere la presenza di una sindrome pericolosa, che in psicologia viene chiamata “intolleranza alle emozioni”. L’intolleranza alle emozioni è il momento nel quale facciamo fatica a prendere atto della comparsa di una certa emozione in noi, e come meccanismo di difesa possiamo diventare aggressivi o evitativi, o negare l’esistenza stessa del fattore che genera questa emozione. Alcune culture d’impresa si illuminano al solo sentire o leggere la parola “marketing”, altre ne rimangono indifferenti, altre la vivono in modo marginale, altre ancora fanno ruotare tutta la strategia attorno a questo tema.  Prendiamo ad esempio due mondi: il mondo del fitness, nel quale si ragiona con il sistema “se qualcuno vuole fare sport la palestra è aperta”, e il mondo cooperativo,  che non è certo immune a questa tendenza oscillatoria che permea ogni vissuto aziendale, per motivi che spiegherò tra poco. Il problema dell’impresa nasce quando il marketing diventa esigenza dovuta ma non un territorio di espressione naturale. In molte aziende, questo deriva da una storia nella quale era il cliente a cercare il fornitore. Oggi è il fornitore a cercare il cliente, e questo genera un disorientamento storico. Lo notiamo anche nel passaggio generazionale nelle PMI, dove i figli spesso trovano come maggiore ostacolo la cultura dei padri. Questo stato può toccare anche il movimento cooperativo.

      Siamo lontani dai tempi nei quali un allievo di Karate doveva dormire all’addiaccio davanti alla casa del maestro, nella speranza di essere accettato come suo allievo. Oggi sono più i corsi degli allievi (metaforicamente), così come sono più i centri commerciali e distributivi rispetto ai quartieri di una città.

      Questo genera disorientamento. La ragione di questo probabilmente va ricercata nella storia stessa del movimento cooperativo, che parte come aggregazione di acquirenti e non certo come aggregazione di venditori. La ragione di questo, nel mondo sportivo, viene dal fatto che chi nutre tanta passione per lo sport da averlo fatto per una vita, e poi apre una palestra, non riesca a capire come non sia possibile che esistano persone che vanno incentivate a farlo.

      Senza negare la storia, dobbiamo chiederci quali erano i valori che hanno dato luogo a questa storia, e trasportarli oggi in un futuro che è già presente. I valori della difesa dei diritti, delle uguaglianze, di un consumo intelligente, della salute, della socialità, i valori sociali, possono e devono essere parte del marketing di ogni azienda. Se il prodotto/servizio è utile, il marketing ne fa da amplificatore.

      Il mondo cooperativo ha poi la possibilità di attingere ad un modo diverso di fare marketing che usa gli stessi strumenti, con fini simili, per una causa completamente diversa: non il profitto di un singolo padrone, ma l’accrescimento positivo di una organizzazione che risponde a bisogni sociali. Se confondiamo l’arma (il marketing) con il fine, entriamo nella sindrome di intolleranza alle emozioni e inizieremo a non amare lo strumento e nemmeno il fine che invece esiste e si tocca con mano nelle persone.  Ma qui entriamo nel pianeta variegato delle problematiche connesse al mondo delle vendite e ad una cultura di vendita.  Dobbiamo porci questi problemi ora, subito, prima che sia troppo tardi:

      • Qualità relazionale verso il cliente e socio: che rapporto offre un’impresa ai propri clienti, come vogliamo definire la qualità relazionale, come la definiamo oggi, come dovremmo probabilmente ridefinirla in prospettiva diversa? Bastano le indagini di Customer o dovremmo guardare ad aspettative latenti del socio, che ancora non sono nemmeno emerse?
      • Brand Extension: i confini di estensibilità del marchio: fino a che punto, quali sono i confini sostenibili, quali quelli sperimentati sinora, con che risultati, quali possibili sviluppi futuri
      • Vendita: stato dell’arte e possibili sviluppi. Che opportunità potremmo cogliere? Dove sono le possibilità di sviluppo? In quali direzioni tecnologiche? In quali sul piano relazionale?
      • Microsegmentazione: impostare il lavoro sul mercato uscendo da concezioni generaliste e localizzando micro-segmenti e bisogni molto specifici (che vanno oltre la categoria in se, ed entrano nella sfera della psicologia del bisogno). Quali variabili possiamo usare per la micro-segmentazione? La micro-segmentazione può dinamicizzare il nostro rapporto con il mercato?

      Il punto di interesse tecnico focale della vendita è la micro-segmentazione, partendo dal principio che ogni segmento (es: giovani mamme, adulti single, giovani coppie, anziani etc) ha propri set di aspettative e valuta la qualità relazionale e il lavoro svolto dalle imprese offerenti con criteri diversi. La sfida è come essere “bravi” a rispondere ad esigenze variegate anche in un contesto di grande distribuzione, e come farlo soprattutto con una distintività percepibile veramente.

      Ad esempio, un gruppo di lavoro nel quale facciamo formazione, esamina ricerche attuali di marketing per ricercare ponti con il mondo delle imprese aderenti, uno dei tanti temi che tratteremo presto è come stiamo rispondendo al segmento che chiede uno “Healthy Lifestyle?” (spunto che nasce da un articolo del Journal of Consumer Research, in un articolo specifico – How Does Drug and Supplement Marketing Affect a Healthy Lifestyle?).

      La sensazione che si ha in molti rapporti con le imprese, come clienti e consumatori  di beni e servizi, è quella di un ottimo luogo per acquisti generici ma che i bisogni personali diventino involontariamente marginali, aree, possiamo chiamarle “residuali” nella “sensazione sentita” di sentirisi visitatore, in cui non si percepisce un “trionfo” di attenzione, zone in cui l’illuminazione o I display sembrano dotati di minor potere attrattivo, o le musiche non adeguate o l’assortimento e informazioni appaiono come spente o dotate di poca carica di energia, o le persone arrancano per arrivare a sera.

      Dobbiamo quindi chiederci se la cultura del marketing, un marketing percettivo “sano”, “corretto”, che consiste nel far percepire bene al cliente il valore che abbiamo, sia entrata davvero o siamo ancora sulla strada e sul cammino, e quando vorremmo arrivare ad un punto che consideriamo un punto d’arrivo.

      In una indagine qualitativa, emerge il caso di un cliente (chiamiamolo Mario), un cliente alla ricerca di un pc portatile, di fascia medio-alta, per cambiare il suo pc portatile principale. Si rivolge ad uno store specializzato, dove desidera poter ricevere un servizio di info-on-demand sulla sua email. Desidera in altre parole davvero ricevere, via mail, un bollettino informative sulle offerte in corso, magari selezionando una fascia di prezzo e di qualità che interessa, ed essere piacevolmente sorpreso nel farsi carico del suo problema di acquisto senza dover periodicamente visitare il punto vendita. Entriamo qui quindi in una richiesta di ribaltamento completo, da cultura di vendita push, a cultura di supporto ad acquisti che esprimono membri di micro-segmenti.

      Il micro-segmento degli appassionati di Informatica esiste. Il micro-segmento di neo-mamme in cerca di (non solo) prodotti ma orientamento nel nuovo ruolo esiste. Il micro-segmento degli “energy savers”  coloro i quali cercano soluzioni per il risparmio di energia, esiste. Il micro segmento degli appassionati di nutraceuticals e di integratori sportivi esiste. Il micro-segmento degli intellettuali appassionati di bio esiste. Trovano risposta in noi? Questi ed altri micro-segmenti sono il vero mercato.

      Dovremmo quindi forse sfruttare meglio le opportunità tecnologiche, avviare campagne di informazione on demand, coltivare maggiormente I tantissimi micro-segmenti di cui si compongono milioni di soci, evitando di pensarli (non di vederli, ma persino di pensarli) come un aggregato indistinto, e osservandoli come piccolo tribù, spesso nomadi, nelle quali si entra e si esce in certi moment della vita e persino della giornata, clan cui ci si aggrega per qualche ora, mese o anno, con la libertà di uscirne.

      Un ulteriore caso specifico spiega altri dettagli della problematica di potenziare la cultura di vendita: parte da una telefonata reale al numero di centralino di una impresa della Grande Distribuzione Organizzata, uno store specialistico. Motivo: ricerca di un cellulare con fotocamera da 8 megapixel (fascia alta, circa 400 euro). La centralinista o addetta telefonica (ruolo non ben percepito dall’intervistato) dice che gli addetti del reparto sono tutti impegnati, e bisogna passare di persona. Il cliente afferma che desiderava solo sapere se quel modello era presente o meno, e che abitava a 40 km dal punto vendita, quindi per fare il viaggio desiderava almeno sapere se il modello che cercava esiste. Dal telefono giunge la risposta che “se anche ci fosse adesso non è detto che poi ci sia quando arriva”, e che “non possiamo tenere fermo un pezzo, se arriva qualcuno viene venduto e quindi se anche ci fosse non è detto che ci sia dopo”. Emerge chiaramente che la mancanza di una cultura di vendita.

      Parlo di una cultura di vendita e di marketing sana e rispondente al bisogno, non di una cultura di vendita insana o malsana. Parlo di far risparmiare quei 40 km a qualcuno e ascoltarlo con interesse. Ancora prima che di una competenza di vendita, dobbiamo potenziare la cultura della vendita. La competenza arriva solo dopo che una cultura si è insediata, solo dopo che qualcosa è stato ritenuto importante e meritevole. Il problema non è tanto quello di instaurare una vendita aggressiva (che non è il nostro stile), ma di dare risposta a dei bisogni veri, che si localizzano in micro-segmenti di bisogno specifici. In questo territorio (i bisogni localizzati, i bisogni sottostanti cui dare risposta anche in modo non convenzionale) si situa una delle maggiori sfide dei tempi attuali. Quando troviamo una persona che si interessa a noi il rapporto vive. Vivere il Brand significa per il cliente pensare alla tua azienda, prima di qualsiasi altra alternativa, sentirla come il depositario di un “filo rosso di fiducia” che lega il mio bisogno a qualcuno di cui mi fido, per una ampia categoria di bisogni, e considerare ogni altro concorrente come alternativa di serie B. Dove questo è possibile? Dove meno? Dove lo sarebbe se trovassimo nuove strategie commerciali? A noi la prossima mossa…

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      Articolo di Daniele Trevisani, anticipazione editoriale dalla rivista Communication Research n. 2/2010, Copyright.

      Vivere il brand – un esempio concreto

      Articolo di Daniele Trevisani, anticipazione editoriale dalla rivista Communication Research n. 2/2010, Copyright.

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      Vivere il brand significa aiutare: Le relazioni umane al centro del vissuto della Marca.

      Dal 2000 e 2001, annio in cui ho pubblicato il volume “Competitività Aziendale” e “Psicologia di Marketing”, quando parlo di Brand, ripeto più o meno le stesse cose, e cioè che il Brand è una questione di relazioni umane e non di pubblicità. Inutile investire in grandi budget se poi il contatto vero con le persone disconferma quanto promesso. Quando le persone si sentono trattate male, quando non sono ascoltate, quando chiami al telefono e si disinteressano di te, quando cerchi di contattare le aziende e non ci riesci, quando chiami un centralino, quando hai qualcosa che non va nei prodotti acquistati. il brand si vive quando qualcuno che tu percepisci come “azienda” ti guarda e come ti guarda, quanto ti parla e cosa dice. Li nasce il vissuto del brand.

      La sola differenza che vedo, ora, è che esistono nuovi strumenti (es: le neuroscienze) che offrono prove di quanto prima si teorizzava.

      Storie di ordinario disinteresse. Ieri sono entrato in un concessionario di auto di un brand tedesco tra i più noti del mondo. Dopo 20 minuti di attesa, dove nessuno si è degnato di chiedersi cosa ci facessi li, me ne sono andato. Non puzzavo, ero vestito bene (camicia bianca e abito scuro), non sembravo un punkabestia, avevo persino un leggero strato di gel che offusca i capelli grigiastri sulle tempie che (dicono…) fanno tanto George Clooney (a me fanno solo incazzare, ma non fa niente)…. come un povero ebete… giravo per la concessionaria… allibito… in un clima surreale post-nucleare, tipo quello di un un ufficio ministeriale in cui entri e tutti fanno qualcosa tranne guardarti…  entravo e uscivo dalle auto per riempire il tempo e il disagio, cercavo disperatamente con gli occhi qualcuno cui chiedere qualcosa. Volevo un preventivo. Niente da fare. Una povera receptionist mi guarda e apre le braccia come per dire:  sono tutti occupati in altro (e non c’erano altri clienti in quella concessionaria alle 16). Non penso neanche di tornarci.

      Vivere il brand significa tanto, ma vorrei soffermarmi un secondo su due significati particolari: (1) aiutare tramite il brand le persone, concretamente, e (2) fare qualcosa che si collega agli eventi di vita delle persone. Io vivo un brand se questo è parte della mia vita. In caso contrario “conosco” un brand, ma non lo vivo. Vivo un brand quando le persone me lo fanno vivere, e non credo più alla pubblicità se non tocco con mano, sono diventato diffidente, e come me tanti altri, a forza di scottature.

      Se dimentichiamo la dimensione del brand come “aiuto” concreto verso i bisogni del cliente scivoliamo nella pura dimensione pubblicitaria che non si concretizza nei comportamenti reali, quotidiani. In questo caso saremmo solo in un ambiente falsamente vivo, di plastica, patinato e di pura immagine, che non è il nostro.

      L’aiuto verso i bisogni del cliente ci permette inoltre di non fermare l’attenzione all’atto di acquisto ma di entrare nella dimensione dell’uso del prodotto, la vera dimensione (nessuno di noi compra ad esempio una TV come soprammobile, salvo alcune patologie, ma ricerca un beneficio d’uso o di possesso correlato al prodotto acquistato). La dimensione dell’utilizzo quotidiano e dei “costi psicologici” che rallentano un acquisto o ne diminuiscono la fruizione completa, sfugge spesso al marketing, tanto concentrato su costi e ricavi quanto poco attento a cosa accade ai prodotti una volta pagati, a come questi entrano nelle case e nella vita delle persone (la dimensione micro-sociologica o etnometodologica, direbbero gli accademici).

      Non mi piace parlare con i robot telefonici, e vorrei che mi chiedessero cose serie. A me, ad esempio, Vodafone continua a far telefonare da un robot-software (pensando che apprezzi parlare con voci registrare e non abbia di meglio da fare), per sapere se il povero ragazzo (che io immagino nella mia menta un CO-CO-CO che non arriva alla fine del mese), il quale ieri mi ha risposto al servizio 190, mi è piaciuto. Non mi ha mai chiesto una volta se la benedetta e pubblicizzatissima chiavetta va sempre come vorrei, cioè in UMTS, o quante volte mi ritrovo invece incastrato con una connessione al rallenty, che fa persino rimpiangere i vecchi modem. La dimensione più banale, l’analisi dell’uso quotidiano del prodotto, sembra essersi persa, dimenticata, nonostante i tanti powerpoint sventolati nei Business Master MBA, e dalle mitiche (e mi sia consentito, plasticose) società di consulenza internazionali che trasudano di parole anglofone tanto quanto sono disancorate alla vita dell’uomo della strada e della famiglia dei paesi, delle città, delle provincie.

      Acquisto frenato. Altro esempio concreto, da un caso reale di acquisto problematico: acquisto di un TV al plasma di nuova generazione, bloccato, frenato e posticipato dalla “paura” di non sapere come collegarlo a tutti i dispositivi già esistenti collegati alla TV precedente.

      Nel caso reale: acquirenti poco alfabetizzati dal punto di vista informatico, etò 66 e 73, con TV attuale collegata a lettore DVD, lettore VHS, decoder attuale in funzione, per canali a pagamento di una nota impresa televisiva cui non facciamo pubblicità. Tutti questi dispositivi ora funzionano magicamente assieme, dopo diversi interventi di tecnici (chiamati dopo ore di disperati tentativi autonomi, in un groviglio di cavi tragicomico), e la sola idea di dover ripartire da zero, sostituire tutto e dover riconfigurare tutto da soli spaventa i due acquirenti. Per non parlare della incredibile confusione tra tecnologie LCD, plasma, ultra-led, tutto-tronics, ultra-flat, e altri misteri della fede, che i poveretti davvero non capiscono (anche se la differenza di prezzo può essere di migliaia di euro).

      Brand Caldi e Brand Freddi

      • Cosa farebbe un Brand Vivo, un Brand Caldo,  nella Grande Distribuzione o in altro settore, di fronte a questo stato di cose?
      • Cosa farebbe un Brand Passivo, un Brand Freddo,  nella Grande Distribuzione o in altro settore, di fronte a questo stato di cose?

      Dobbiamo consigliare a queste persone di rivolgersi ad un negozio specialistico o ad un installatore? Dobbiamo pensare che in fondo non è un problema nostro? Il loro problema diventa il nostro problema o rimane loro? Il filo rosso che collega il cliente al brand finisce appena usciti dalla barriera delle casse? E dove inizia? Come essere e diventare referenti assoluti e prioritari di una categoria di bisogni? Domande non facili.

      Ma il problema non si ferma qui. Anche supposto che si attivi qualche forma di servizio, a pagamento o in coordinamento con service esterni, questo andrebbe comunicato adeguatamente. Come insegna una legge basilare del marketing, nessun valore è tale se non percepito.

      E siamo certi che un eventuale installatore riesca a mentenere elevato il valore del Brand, non essendo parte (banalmente) della stessa partita IVA, ma lavorando per la propria?

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      Articolo di Daniele Trevisani, anticipazione editoriale dalla rivista Communication Research n. 2/2010, Copyright.